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La campagna di Biden e la maledizione di Carter

(Roma, 16 gennaio 2024). C’è un fantasma, o forse più di uno, che si aggira al 1600 di Pennsylvania Avenue. Non è solo quello del ritorno di Donald Trump, il cavaliere oscuro favorito tra gli sfidanti repubblicani per ottenere la nomination del partito, bensì anche quello di un altro predecessore del presidente Biden appartenente però alla sua stessa famiglia politica. A turbare il sonno del vecchio Joe, sempre più in affanno nei sondaggi, è infatti Jimmy Carter, eletto per un solo mandato dal 1977 al 1981, il cui sfortunato destino a Washington rappresenta un incubo ricorrente per l’attuale inquilino della Casa Bianca.

I due si conoscono dal 1974 quando l’allora senatore Biden incontrò per la prima volta Carter, all’epoca governatore della Georgia. Quest’ultimo era incuriosito dalla folgorante ascesa del giovane a Capitol Hill e stando alle testimonianze legarono molto. “Gli dissi che alla gente importa più la credibilità e se un candidato ha a cuore i loro interessi piuttosto che i programmi e le capacità di risolvere problemi”, così rispose il parlamentare del Delaware all’amministratore del Peach state che di lì a due anni sarebbe sceso in campo per la presidenza.

Non potevano sapere che un giorno entrambi avrebbero condiviso l’esperienza unica di entrare nello Studio Ovale per guidare il Paese affrontando problematiche quasi identiche. In politica interna un’inflazione elevata. Negli affari esteri una turbolenta situazione in Medio Oriente. “I crescenti costi legati all’aumento dei prezzi stanno danneggiando il tessuto della società americana” scriveva Biden nel 1978, al tempo della sua campagna per la rielezione al Senato, puntando il dito contro i costi e l’inefficienza del governo mentre Carter era al secondo anno della sua presidenza. L’inflazione all’epoca si aggirava intorno al 13%, quasi 10 punti in più rispetto al livello corrente che pure mette in difficoltà l’attuale presidente e potrebbe impedirne la vittoria il prossimo novembre.

Eppure, nonostante le divergenze politiche accentuate da un certo protagonismo mediatico da parte di Biden – “sta imparando ma non abbastanza in fretta” sosteneva il giovane politico riferendosi a Potus – la relazione tra i due non ne ha mai sofferto. Rievocando quel periodo il Wall Street Journal ricorda che l’allora senatore sostenne la corsa di Carter per un secondo mandato dichiarando nell’aprile del 1980 che il loro candidato, pur non essendo la scelta migliore, stava facendo un “buon lavoro”. Un intervento che lascia emergere come i due siano stati uniti anche da uno scarso sostegno popolare.

L’inflazione non fu comunque l’unico fattore ad affondare la rielezione di Carter deprimendo i suoi indici di gradimento nazionale. Esauritosi il lungo e sfortunato impegno americano in Vietnam, il Medio Oriente era diventato una nuova fonte di preoccupazione per gli Stati Uniti. La rivoluzione teocratica in Iran aveva determinato la fine dell’alleanza tra Washington e Teheran dando il via ad una crisi che ancora oggi resta insoluta e minaccia di precipitare l’intera regione nel caos. Per liberare i 53 dipendenti dell’ambasciata americana tenuti in ostaggio dal nuovo regime iraniano il presidente autorizzò nell’aprile del 1980 la spericolata operazione Eagle Claw che si concluse in un disastro con la morte di otto militari della Delta Force e la fine del sogno per Carter di un secondo mandato alla Casa Bianca.

È probabile che in questi mesi che precedono le elezioni presidenziali Biden stia osservando con orrore l’accumularsi delle somiglianze tra la sua amministrazione e quella del suo lontano predecessore. Il presidente democratico conosce bene la storia. Sa di essere impegnato in una lotta non solo contro l’inflazione e i proxies di Teheran ma anche contro un destino tremendamente familiare. E in un modo o nell’altro, all’ombra di Carter, questa sarà la sua ultima battaglia.

(Inside Over)

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