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Iraq: la NATO pronta a passare da 500 a 5.000 soldati

(Roma il 17 febbraio 2021). Alla luce delle crescenti tensioni, la NATO si è detta disposta ad ampliare la propria missione di addestramento in Iraq. Nel frattempo, Baghdad e Washington continuano a indagare sull’attacco che, il 15 febbraio, ha colpito l’aeroporto di Erbil, nel Kurdistan iracheno.

Come accennato il 15 febbraio dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, i ministri della Difesa dell’organizzazione saranno chiamati, in un meeting previsto per il 18 febbraio, ad esprimersi in merito all’aumento di soldati dell’alleanza militare in Iraq, una volta che la pandemia di Coronavirus si sarà attenuata. In particolare, si prevede che si passerà da circa 500 a quasi 4.000 o 5.000 uomini, così da rafforzare ulteriormente il ruolo della NATO nella regione mediorientale. Tuttavia, è stato specificato da Stoltenberg, si tratterà di un’espansione graduale, che terrà conto delle circostanze attuali e dei futuri mutamenti.

Si prevede che il personale alleato verrà dispiegato in diverse istituzioni di sicurezza in tutto l’Iraq. Ad ogni modo, l’organizzazione è impegnata in Iraq non in una missione di combattimento, bensì di addestramento e consulenza, attiva a Baghdad sin dal 2018. In particolare, la missione NATO attualmente fornisce servizi di addestramento e tutoraggio solo ai membri delle istituzioni di sicurezza irachene e alle forze poste sotto il diretto controllo del governo iracheno. Sebbene si fosse parlato anche in precedenza di un possibile ampliamento, i piani sono stati più volte rimandati sia a causa della pandemia di Covid-19 sia alla luce delle preoccupazioni sulla stabilità regionale, acuitesi a seguito del raid aereo che, il 3 gennaio 2020, ha causato la morte del generale iraniano a capo della Quds Force, Qassem Soleimani.

In precedenza, era stato l’ex capo della Casa Bianca, Donald Trump, a richiedere l’espansione della missione della NATO, invitando l’organizzazione a svolgere un ruolo maggiore in Iraq. Ora, però, secondo quanto rivelato da alcune fonti diplomatiche, sarebbe stato il primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, ex capo dell’intelligence e alleato degli Stati Uniti, ad auspicare una maggiore presenza della NATO nel Paese, alla luce della crescente instabilità e insicurezza. A fronte di ciò, si pensa che l’organizzazione sarà impegnata anche in alcune delle attività di addestramento svolte dalla coalizione anti-ISIS guidata dagli USA. A tal proposito, secondo fonti diplomatiche, l’alleanza che coinvolge anche Paesi come Gran Bretagna, Turchia e Danimarca, potrebbe essere meglio accolta dalla popolazione irachena rispetto a una forza di addestramento soltanto statunitense.

Gli Stati Uniti si sono detti “indignati” per l’accaduto, mentre anche l’Italia ha condannato l’accaduto, confermando il suo impegno, al fianco del governo iracheno e delle autorità regionali del Kurdistan, “nella lotta al terrorismo e all’estremismo violento”, oltre che “per restituire sicurezza e stabilità all’Iraq e all’intera regione”.

L’attacco è stato rivendicato da un gruppo soprannominato Saraya Awlia al-Dam, ovvero i “Guardiani delle Brigate di Sangue”, le quali hanno riferito che il reale obiettivo era rappresentato dalla presenza statunitense in Iraq e che, pertanto, il loro attentato era da considerarsi una forma di vendetta per la morte dei leader martirizzati. In tale quadro, a seguito dell’accaduto, Baghdad e Washington si sono dette disposte a collaborare per comprendere le dinamiche dell’attentato e portare davanti alla giustizia i responsabili. Al contempo, gli Stati Uniti hanno riferito che si riservano il diritto di rispondere nel momento e nel luogo più opportuno, mentre il portavoce delle forze armate irachene, Yayha Rasoul, ha affermato che Baghdad non permetterà che il Paese venga trasformato in un’arena “per regolare i conti” di parti terze, con riferimento alle perduranti tensioni tra Washington e Teheran.

Piera Laurenza. (Sicurezza Internazionale)

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