Il secolo di Kissinger

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(Roma, 26.05.2023). Domani l’ex segretario di Stato Usa compie 100 anni: da ben 47 non ha più incarichi di governo ma resta uno dei protagonisti dell’élite globale. E non rinuncia a dire la sua.

Domani compie 100 anni. E a far gli auguri a Henry Kissinger saranno tutti i potenti del mondo. La settimana scorsa i super selezionati componenti del gruppo Bilderberg, riuniti a Lisbona, gli hanno reso omaggio con una sessione speciale. La riservatezza del club dei ricchi e influenti è proverbiale e non si sa nemmeno se il quasi centenario abbia partecipato di persona o si sia collegato via video. Di sicuro l’ex segretario di Stato americano partecipa alle riunioni della Bilderberg dall’ormai lontanissimo 1957 e nell’intervista tv più recente, di un paio di settimane fa alla Cbs, è apparso in discrete condizioni di salute: mostrando il suo disappunto, ha anche alzato il tono della voce (così tipica, profonda e baritonale, diventata ancor più roca con gli anni) quando l’interlocutore gli ha ricordato le accuse di cinismo che da sempre i suoi avversari gli muovono.

L’intelligenza e la capacità di analisi non sono scomparse. In un’altra intervista, pubblicata l’altro ieri sul settimanale Die Zeit, ha analizzato in profondità radici e svolgimento del conflitto ucraino: «La colpa non è solo della Russia», ha detto, ricordando che nel 2014 si era dichiarato contrario ai piani per far entrare Kiev nella Nato. «Da lì è iniziata una serie di eventi culminati nella guerra». Ora naturalmente, dice, la resistenza ucraina va sostenuta con forza, anche se a suo tempo «avrei preferito che l’Ucraina restasse neutrale, con uno statuto simile a quello della Finlandia di una volta». Appena finita la guerra l’Ucraina dovrà essere accolta nell’alleanza: «zone neutrali non possono più esserci».

Alla sua età qualsiasi cosa dica fa notizia. E può sembrare una stravaganza visto che Kissinger ha lasciato l’ultimo incarico governativo la bellezza di 47 anni fa, con la fine dell’amministrazione di Gerald Ford. Eppure, da allora, la sua fama non è diminuita e anzi la sua figura è diventata l’icona di una stagione irripetibile della diplomazia globale.

Unica la sua carriera lo è stata davvero. Come la sua vita da film. Nato a Fürth, in Baviera in una famiglia di religione ebraica, Heinz Alfred (questo il suo nome alla nascita) riesce a fuggire appena in tempo con i genitori dopo l’arrivo al potere di Hitler. Torna in Germania a 20 anni, quando la seconda guerra mondiale sta per finire: si occupa di controspionaggio, denazificazione, dell’amministrazione della Germania occupata.

Il vero trampolino di lancio è però l’Università di Harvard, dove si fa subito notare prima come studente e poi come giovanissimo e brillante professore di scienze politiche.

L’ingresso nella politica praticata è subito successivo. Vicino ai Repubblicani diventa consigliere per la sicurezza nazionale e poi Segretario di Stato; tra il 1969 e il 1976 è lui a disegnare la politica estera americana, con effetti che segneranno molti decenni successivi. Le sue visite a Pechino (la prima in totale segretezza) aprono la strada della diplomazia del ping-pong, la Cina fa il suo ingresso sulla scena internazionale. Contribuisce in maniera decisiva agli accordi di Parigi, che mettono fine alla guerra in Vietnam. Per questo riceve il premio Nobel per la Pace. Ma gli avversari non mancano. Gli si rimprovera l’appoggio ai generali golpisti in Cile e Argentina, diventa l’incarnazione dell’arroganza yankee, il tessitore occulto delle trame della Nato e degli «amerikani» della Cia. Anche per il suo inglese, pronunciato con accento tedesco, viene spesso paragonato al Dottor Stranamore, bellicista e guerrafondaio come il personaggio reso celebre dal film di Stanley Kubrick.

A toglierlo di mezzo è lo scandalo Watergate, con le dimissioni di Nixon e la sconfitta dei repubblicani di Gerald Ford. Da allora si dedica all’insegnamento universitario e alla consulenza, scrive libri (un paio solo negli ultimi due anni). Con la seconda moglie, sposata nel 1974, si divide fino ad oggi tra la villa immersa nei boschi del Connecticut, buen retiro negli anni del Covid, e l’appartamento di Manhattan. Quando viene in Europa non manca mai di incontrare Gianni Agnelli, uno degli amici che frequenta più volentieri: spesso li si vede insieme allo stadio, una delle grandi passioni dell’ex segretario di Stato.

Per sua ammissione a segnare uno dei momenti più difficili della sua carriera è l’incontro con un’altra italiana, questa volta donna: Oriana Fallaci. Nell’autunno del 1971 la giornalista scrittrice gli chiede un’intervista e lui accetta. «Mi era piaciuta quella che aveva fatto al generale Giap», avrebbe spiegato più tardi quasi per giustificarsi. Il colloquio, come spesso capita con la Fallaci, è spigoloso.

Quel che è peggio le sue risposte si rivelano un disastro mediatico. Kissinger definisce «inutile» la guerra in Vietnam, dice di preferire i generali vietcong a quelli dell’alleato Sud e poi si descrive come il protagonista indiscusso della politica estera americana: il mio successo nasce dai risultati, spiega. «E tuttavia il punto principale non è quello… Il punto principale nasce dal fatto che io abbia sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta».

Ce n’è a sufficienza per far infuriare Nixon, che per settimane non vuole vederlo e minaccia di licenziarlo. «È stata la conversazione più disastrosa che ho mai avuto con un giornalista», commentò Kissinger anni dopo.

Di Angelo Allegri. (Il Giornale)