(Roma, 20.02.2023). Un Paese in piena deriva. Questo è il Libano d’oggi. Una terra magnifica ma da oltre trent’anni straziata, impoverita, devastata, umiliata. L’inarrestabile crisi economica e finanziaria ha ridotto l’oltre 80% dei libanesi in stato di povertà: la valuta nazionale è carta straccia – la lira libanese ha perso in tre anni il 98% del suo valore -, i salari sono imbarazzanti, il sistema statuale è collassato. Acqua, elettricità, istruzione, trasporti pubblici, pensioni, sanità sono ormai dei mesti e lontani ricordi. Niente funziona e intanto il colera divampa nelle zone rurali, nelle periferie più disperate. A pagare il salatissimo conto i più poveri. Gli ultimi.
Chi può campa con i dollari o gli euro ricevuti dai parenti scappati all’estero a rinfoltire la sempre più numerosa diaspora libanese sparsa per l’intero globo. Un’elemosina o una solidarietà – chiamatela come preferite – che alimenta un fiume di denaro pari, secondo i calcoli della Banca mondiale sul 2022, al 38% del Pil nazionale. In più l’implosione del sistema bancario – un tempo fiore all’occhiello dell’antica e defunta Svizzera levantina – ha determinato un’economia basata sul cash, sul contante, sul nero più nero. Tutto è fuori controllo. A Beirut i correntisti disperati assaltano le banche per tentare di recuperare i propri risparmi e intanto ogni transazione, ogni commercio, è divenuto un affare informale, basato esclusivamente sul fruscio di banconote statunitensi o europee. Unica realtà apparentemente solida e coesa rimangono le forze armate nazionali, almeno finché il Qatar e gli americani continueranno a pagare stipendi e materiali. Poi chissà…
Le responsabilità di tale immane disastro vanno equamente ripartite tra le oligarchie politiche e finanziarie che dalla fine della lacerante guerra civile dominano e straziano il Paese. Dal 1990 ad oggi i rapaci e molto corrotti capi delle diverse comunità confessionali – sunniti, sciti, cristiani d’ogni confessione, drusi – hanno distrutto ogni cosa e depredato ogni bene. Senza vergogna e senza rimorsi. Con molti guadagni.
Risultato ? La paralisi istituzionale. Imbarazzante ma senza soluzioni. Dal 31 ottobre scorso la repubblica libanese (o ciò che ne rimane) è priva di un presidente. Michel Aoun, rappresentante molto controverso del blocco cristiano maronita, ha esaurito il suo mandato ma nessuno sembra volersi candidare e così tutto rimane sospeso. Il Parlamento, un tempo sapiente alchimia interconfessionale, è di fatto esautorato e nessuno pensa a convocarlo. Tanto a nulla serve e nulla decide. Il Consiglio dei ministri finge di riunirsi ogni tanto per sbrigare gli affari correnti ma, dopo aver finto di litigare, ognuno dei notabili torna a casa per continuare a farsi gli affari propri o, al massimo, quelli della sua comunità. Persino l’approvazione di un disegno di legge per ottenere l’ennesimo prestito del Fondo monetario internazionale è stata sospesa, rinviata, rimandata. Chi se frega…
Insomma, agli avidi padroni del martoriato Libano i problemi reali del Paese e delle sue genti non interessano per nulla, al punto di fregarsene bellamente delle ripetute pressioni internazionali. I vari ras locali hanno incredibilmente snobbato il meeting parigino dello scorso 6 febbraio tra Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto (l’Italia, al solito, era non invitata…) sulla questione libanese. Come se la faccenda non li riguardasse.
Nel frattempo continua la spirale verso il baratro. Nell’apatia e il silenzio della maggioranza dei cittadini. Un dato, un fenomeno, apparentemente inspiegabile ma, a ben vedere, comprensibile. Gli orrori della lunghissima guerra civile hanno lasciato troppe ferite e la paura di una nuova mattanza terrorizza chi è rimasto, chi non può espatriare. Meglio adeguarsi e cercare di tirare avanti. In silenzio. Chi protesta potrebbe finire male come l’intellettuale Lokman Slim, assassinato nel febbraio 2021 per le sue critiche alla casta.
Insomma nessuno è al sicuro come confermano le strambe quanto virulente contestazioni contro il giudice Tarek Bitar, il magistrato che indaga sulla tremenda esplosione del porto di Beirut nel 2020 causata da 3mila tonnellate di nitrato di sodio incredibilmente abbandonate in un magazzino. Il terribile botto ha devastato interi quartieri della capitale con un bilancio di 220 morti e 6500 feriti. Un brutto, bruttissimo affare. Eppure tutti partiti e i tutti loro terminali – nella magistratura, nelle istituzioni, nelle chiese e nelle moschee – hanno cercato e cercano di fermare le indagini di Bitar ponendo continuamente veti e ostacoli o mobilitando le proprie tifoserie. Uno scandalo. Restano solo alcuni coraggiosi – per lo più parenti delle vittime – che si ostinano a chiedere un’inchiesta internazionale sotto il controllo dell’Onu. Nel Paese dei cedri il futuro è sempre più cupo.
Di Marco Valle. (Inside Over)