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Il «blackout» economico cinese: che cosa succede (davvero) a Pechino

(Roma, Parigi, 17 gennaio 2022). Come sta l’economia della Cina? Dipende da come vengono letti i dati. Se, infatti, ci limitiamo a dare una rapida occhiata ai numeri sciorinati dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), sembra che il Dragone sia in affanno, a bordo ring e incapace di reagire di fronte ad avversari ben più carichi. In primis, citiamo il nemico invisibile che non si stanca mai: il Sars-CoV-2. Pechino è infatti riuscita da tempo ad arginare i contagi, portando la convivenza con il virus a un livello più che accettabile; ma i sacrifici richiesti dal governo al Paese sono stati tanti, a cominciare dalle rigide politiche varate per contenere la diffusione del Covid-19.

Seguono altri due fattori destabilizzanti come la crisi immobiliare e quella energetica, le quali hanno provocato una forte contrazione del mercato dei consumi e degli investimenti. I grafici parlano chiaro: dal febbraio 2021 in poi, prodotto interno lordo, produzione industriale e vendite al dettaglio sono scese in picchiata. Eppure sarebbe un errore chiudere la questione parlando di una Cina allo sbando, o peggio, di una nazione che ha perso la sua spinta propulsiva.

Già, perché appurata la presenza di un netto rallentamento – che, per inciso, ha coinvolto tutto il mondo – nel quarto e ultimo trimestre del 2021 la Repubblica Popolare ha comunque goduto di una crescita del pil pari al 4%. A voler esser precisi si tratta di una decelerazione di 0,9 punti percentuali rispetto ai primi nove mesi dell’anno, nonché dell’aumento del pil più basso registrato dal secondo trimestre 2020; ma le autorità cinesi, a differenza della quasi totalità dei governi occidentali, possono ancora sbandierare una crescita non da poco.

Frenata o decelerazione ?

La Cina ha chiuso in positivo il bilancio del 2021, con un pil complessivo da 18 mila miliardi e una crescita superiore di 0,1 punti percentuali sulle precedenti stime di Banca mondiale, che prevedeva un’espansione dell’economia dell’8%. A guidare lo sviluppo nel 2021 è stata soprattutto la forte domanda registrata nella prima parte dell’anno, quando la Cina, prima tra le potenze mondiali a rialzarsi dopo il terremoto Covid-19, ha esportato un gran quantitativo di beni e dispositivi medici. La persistente sofferenza del comparto energetico e immobiliare ha però spinto il governo ad un più deciso intervento sul mercato e a formulare obiettivi di crescita più ragionevoli per l’anno in corso.

Secondo quanto riferito negli scorsi mesi dalla Nikkei Asian Review, il Partito Comunista Cinese avrebbe deciso di fissare il target di crescita del 2022 al 5,5%. Dunque, in base a quanto emerso, c’è chi continua a parlare di frenata cinese e chi, più propriamente, di decelerazione. E tra i due concetti esiste una notevole differenza, visto che il primo lascia presupporre una brusca inchiodata, mentre il secondo illustra un Paese ancora in corsa, anche se a una velocità di crociera via via minore rispetto a quando è partito.

Il rischio più grande

A proposito di velocità di crociera, è su questo che vale la pena fare un ragionamento più approfondito. Il pil della Cina, come detto, è in positivo, mentre gli obiettivi tecnici messi in agenda sono stati tutti centrati. Attenzione però alla percezione della popolazione nei confronti di uno scenario ben distante da quello che, qualche anno fa, faceva da sfondo a una crescita apparentemente inarrestabile. Basti pensare che, tra il 1985 e il 1989, il ritmo di crescita del pil pro capite cinese schizzò dal 12% al 2,5%, provocando enormi tensioni sociali e sfociando negli incidenti di Piazza Tienanmen.

Non a caso, un articolo del settimanale La Lettura ha centrato un rischio che Pechino farebbe bene a prendere in considerazione: “Il malcontento di chi perde (o ha l’impressione di perdere) quel che ha (o si aspetta di avere) può dare luogo a crisi sociali molto più destabilizzanti del malcontento di chi non ha niente e non si aspetta di avere niente”. Tornando al presente, la crescita del pil pro capite si è dimezzata dal 2010 al 2019, passando dal 10% al 5%, per poi toccare quota 2% nel 2020. Se, dal punto di vista europeo, la crescita cinese appare quasi un miraggio, dal punto di vista del popolo cinese è più povera di quanto non lo fosse un decennio fa.

Di Federico Giuliani. (Il Giornale/Inside Over)

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