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RIPARTIRE IN MEDIO ORIENTE

(Roma, 07 gennaio 2022). A vent’anni data dall’attentato alle  Torri gemelle, e dopo tre successive “missioni”, l’una più disastrosa dell’altra, l’America di Biden ritorna in Medio Oriente con l’obbiettivo assai più modesto di “non avere grane”. Leggi, di evitare le guerre riducendo i livelli e le cause di conflittualità.

In questo troverà, davanti a sé un campo aperto. Ma perché pieno di rovine. Rovine di popoli; causa che, almeno per ora, non interessa a nessuno. Ma anche rovine, e questo interessa tutti, di tutti quei disegni, partoriti nell’area , in nome dei quali i popoli sono stati portati alla rovina.

Vediamoli, allora, uno per uno. A cominciare da quello di Netanyahu, per circa una generazione “re d’Israele”. Sotto la sua guida il paese ha raggiunto, da ogni punto di vista, risultanti strabilianti.

Il suo errore è stato però la pretesa  di continuare a vivere in uno stato di guerra permanente. Contro tutti e tutto: in un clima di  perenne possibile catastrofe che solo lui era in grado di impedire.

Una narrazione che però è stata la causa prima della  sua, molto probabilmente definitiva, sconfitta. All’interno perché incompatibile  con la convivenza stessa delle varie “tribù”che compongono la società israeliana così come tra israeliani e palestinesi. All’esterno, perché non più in fase con i processi in atto in tutto il Medio oriente e nelle sue propaggini.

Qui a dominare è la stanchezza e l’esaurimento. Che coinvolge, in forme diverse, governanti e governati. E che, come dire, porta ad una “pausa di riflessione”, suscettibile di dar luogo agli esiti più diversi ma in cui il ricorso alla violenza sta diventando, a poco a poco, una scelta di ultima istanza. Mentre tutto sembra spingere verso la ricomposizione dei conflitti.

Ecco, allora, il ritorno della Siria nella Lega Araba, all’interno di un dialogo a tutto campo.  E il corrispettivo abbozzo di dialogo tra i regimi del Golfo e l’Iran. Ecco le mediazioni qatariote. La fine, ancora per  esaurimento, delle guerre siriane e libiche). Gli abbozzi di un possibile dialogo tra i regimi del Golfo e l’Iran. Le mediazioni a tutto campo in atto nel Caucaso. E, ancora, la stesso pressante ricorso agli aiuti internazionali da parte dei talebani, posti di fronte a problemi drammatici che non sono in grado di gestire.

Questa non è una tregua momentanea in attesa del riaccendersi del conflitto. E’ piuttosto un momento di riflessione. Dove si comincia a capire non solo che i conflitti non si possono vincere; ma anche che le Cause per le quali sono stati combattute non sono più credibili. E agli occhi stessi di coloro in nome dei quali sono state promosse.

Qui al fallimento delle già ricordate missioni statunitensi fa il paio con quelle del radicalismo islamico: che si tratti dei Fratelli Musulmani, del binomio al Qaeda/Isis (portato a spostare la sua azione fuori dal Medio oriente) e, infine della rivoluzione iraniana e delle sue propaggini politiche /militari esterne.

E qui veniamo al nodo della questione. Che è quello che interessa più direttamente i lettori dell’Avanti ! e i nostri amici libanesi. E che si riassumono nel fatto che, oggi, l’Iran, o meglio il suo regime sono molto più sicuri sul piano militare/strategico; ma, nel contempo, molto più deboli su quello sociale e politico.

Più sicuri (e noi con loro…) perché in grado di gestire i negoziati di Vienna nei tempi necessari; in una situazione in cui Washington non può assumere impegni né imporre sanzioni; mentre esclude drasticamente l’ipotesi di ricorrere alle armi (messaggio recepito da “chi di dovere”, vedi intervista di Lapid al New York Times”).

Più deboli, perché non in grado di adempiere in alcun modo agli impegni assunti  al momento della comparsa sulla scena mediorientale: rappresentare un’alternativa di governo rispetto ai regimi esistenti (sul piano religioso, morale e sociale); e nel contempo combattere e sconfiggere il nemico esterno, leggi gli Stati Uniti e l’”Entità sionista”.

Da qui il loro crescente discredito. Che porta i popoli destinatari della promessa non solo a ritenerla del tutto irrealizzabile, ma, peggio ancora, ad attribuire i loro infiniti mali non solo al sullodato nemico esterno ma anche ai loro stessi dirigenti.

E, ancora, da qui il  generale disfacimento delle posizioni dell’Iran, prima nelle aree interne della “Mezzaluna fertile e ora, anche in Palestina e in Libano. Parliamo della vittoria del nazionalista anti iraniano (ma anche antiamericano…) Moqtada al Sadr in Iraq; e dell’incapacità delle milizie sciite di contestarla. Parliamo della già citata reintegrazione della Siria nel blocco sunnita, con annesso isolamento di queste milizie esposte alle continue spedizioni punitive israeliane. E parliamo, soprattutto, dell’area compresa tra il Giordano e il mare dove, a condurre la partita, è l’asse sempre più solido tra Biden e il nuovo governo di unità nazionale nato poco dopo l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti.

Un asse fondato sul convincimento che i palestinesi – in Israele come nei territori e a Gaza- siano più interessati al miglioramento delle loro, spesso intollerabili,  condizioni, individuali e collettive, di vita che alle Cause per le quali sono, da decenni, chiamati a combattere; siano esse quelle dello stato palestinese o delle battaglie di Hamas (o di Hezbollah) contro la fu “entità sionista”. Ed è sulla base di questo convincimento il nuovo governo israeliano  ha annunciato: un vasto programma di sostegno economico per gli arabi di Israele; uno di analoga se non addirittura superiore portata, per gli abitanti di Gaza, in cambio dell’accettazione, da parte di Hamas, di una tregua illimitata nel tempo; e, infine, un alleggerimento dei controlli soffocanti cui sono sottoposti gli abitanti dei territori occupati (controlli, per inciso, che, nel corso di questi ultimi vent’anni hanno comportato mancati guadagni per oltre 50 miliardi di dollari).

L’indirizzo, almeno a parere di chi scrive, è quello giusto. Ma è anche destinato a trovare, ben presto,tre ostacoli oggi come oggi insormontabili- il no di Hamas, etero diretto da Teheran (che fa il paio con quello di Hezbollah alle riforme); le resistenze feroci della destra israeliana (siamo arrivati a tacciare di “tradimento dei principi del sionismo”la proposta di allacciare alle reti idriche ed elettriche insediamenti palestinesi esistenti da anni all’interno di Israele); e, infine, un regime di sanzioniamo che penalizza (vedi ancora Libano, ma non solo) i governati per le colpe di chi li governa.

E, allora,perché le cose cambino, occorre introdurre sulla scena un altro personaggio: il denaro. E coloro che ne dispongono: dai paesi del Golfo, alle istituzioni finanziarie internazionali, ai tanti detentori pubblici e privati di risorse in attesa di essere utilizzate. Aiuti immediati per ll Libano che sta morendo, come per gli abitanti di Gaza, gli afghani, le popolazioni siriane; per tutti coloro che si affollano le nostre frontiere e che ci affrettiamo a respingere. Insomma un nuovo piano Marshall.

Un atto dovuto. Un atto di riparazione. L’alternativa è la guerra permanente. Mentre con il denaro si può comprare tutto. Anche la pace.

Di Alberto Benzoni

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