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Libano: dalla crisi delle banche alla rabbia della popolazione

(Roma, 08 marzo 2021). Di fronte a una situazione economica in continuo peggioramento, alcune banche libanesi sono state costrette a chiudere filiali o a licenziare dipendenti, al fine ultimo di ridurre le proprie spese. Nel frattempo, la popolazione continua a manifestare la propria rabbia per le strade del Paese.

È dal 2 marzo che il Libano, testimone di una grave crisi economica e finanziaria, oltre che politica, sta assistendo a una nuova ondata di proteste, dopo che la valuta libanese, la lira, ha raggiunto un minimo storico, toccando quota 10.000 lire rispetto al dollaro USA nel mercato nero. Ciò ha provocato un aumento dei prezzi, anche per beni di prima necessità, aumentati di circa il 144%, e di medicinali e materie prime, oltre a una crescente diminuzione dei salari minimi, alcuni dei quali ridotti del 60%. Parallelamente, sono stati registrati ritardi nell’arrivo delle spedizioni di carburante, da cui il Libano dipende per fornire elettricità alla propria popolazione, il che ha provocato interruzioni prolungate di corrente in tutto il Paese. Alcune aree libanesi sono rimaste senza elettricità anche per più di 12 ore al giorno.

Di fronte a tale scenario, nella mattina di lunedì 8 marzo, gruppi di manifestanti hanno ostacolato le vie d’accesso principali del Paese, comprese quelle verso il Sud della capitale Beirut, invitando l’intera popolazione libanese a scendere in piazza per “preservare” la nazione. Bidoni e pneumatici sono stati dati alle fiamme anche a Bekaa e a Tripoli, mentre il popolo è sceso in piazza proclamando quello che è stato definito il “giorno della rabbia”, in concomitanza con l’inizio di una nuova fase di allentamento delle restrizioni anti-Covid, imposte dal governo per più di un mese per far fronte all’impennata di contagi. “Abbiamo affermato più volte che ci sarà un’escalation, visto che il governo non sta facendo nulla”, ha dichiarato uno dei manifestanti, mentre un attivista ha affermato: “La classe politica sta ancora mettendo al primo posto i propri interessi, e sta cercando guadagni”. Scene simili si sono verificate anche il giorno precedente, il 7 marzo, quando un gruppo di manifestanti, riunitosi davanti alla sede della Banca centrale a Beirut, ha chiesto di accedere ai propri depositi, prima di dirigersi verso il Parlamento e la centrale piazza dei Martiri.

Nel frattempo, 65 enti bancari, che gestiscono, in totale, 1045 filiali sono state costrette ad attuare nuove misure per ridurre le proprie spese, tra cui la chiusura di alcuni uffici e il licenziamento dei propri dipendenti. In un quadro di ristrutturazione del settore bancario, la Banca centrale libanese aveva precedentemente chiesto alle banche di aumentare il capitale del 20%, oltre a reimmettere dollari nei conti bancari con banche corrispondenti all’estero, per un valore pari al 3% dei depositi in valuta estera. Parallelamente, è stato chiesto ai singoli enti di restituire il 15% dei fondi trasferiti all’estero, nel caso in cui questi superassero i 500.000 dollari, mentre ai proprietari di banche, membri del consiglio di amministrazione e dirigenti è stato chiesto di restituire il 30% di quanto trasferito all’estero tra il 2017 e il 2020.

Asaad Khoury, capo del Sindacato degli impiegati bancari in Libano, ha affermato che il sindacato ha preparato una proposta che richiede alle banche di pagare un compenso fisso a tutti i dipendenti licenziati, equivalente a 18 mesi di stipendio, oltre a due mesi di stipendio per ogni anno di lavoro. È stato lo stesso Khoury a mettere in guardia da un aumento dei licenziamenti, i quali potrebbero giungere anche a quota 5.000, su un totale di 25.000 impiegati.

Il tutto si inserisce nel quadro di una perdurante crisi, scoppiata dal 2019, definita la peggiore dalla guerra civile del 1975-1990. Negli ultimi due anni, le banche commerciali hanno perso depositi per circa 49 trilioni di sterline libanesi, equivalenti a circa il 22% delle loro attuali attività totali. Considerato che i titoli di stato rappresentano il fulcro delle attività bancarie, sono proprio le banche ad essere ritenute tra le vittime principali dell’incapacità del governo di saldare i propri debiti, tra cui si annoverano 1.2 miliardi di obbligazioni Eurobond, in scadenza il 9 marzo 2020.

I primi movimenti di protesta risalgono al 17 ottobre 2019, quando la popolazione libanese era scesa in piazza evidenziando la corruzione dilagante nel Paese e la cattiva gestione delle risorse statali, che avevano causato uno sperpero di denaro pubblico e la conseguente crisi economica e finanziaria. Sebbene le proteste fossero state placate, il declino del quadro economico e politico non si è mai arrestato. Ad aver peggiorato ulteriormente la situazione, vi sono state, nel corso del 2020, la pandemia di Covid-19 e l’esplosione che, il 4 agosto 2020, ha colpito il porto di Beirut, causando ingenti danni materiali, oltre che perdite di vite umane.

Il 22 ottobre 2020, il premier in carica prima della mobilitazione di ottobre 2019, Saad Hariri, si è detto disposto a risanare una situazione politica sempre più precaria. In tale data, Hariri è riuscito a essere nominato primo ministro per la quarta volta dal 14 febbraio 2005, giorno dell’assassinio del padre, Rafiq Hariri. Il primo ministro, in realtà, si è impegnato anche verso Parigi e i donatori internazionali, che si sono resi disponibili a sostenere il Libano, ma solo nel caso in cui venga formato un governo indipendente in grado di porre in essere le riforme e le misure di cui necessita il Paese. Ad oggi, però non è stata ancora trovata una via d’uscita dal perdurante stallo. In tale quadro, il capo del governo custode, Hassan Diab, in un discorso televisivo trasmesso il 6 marzo, ha messo in guardia da una situazione di caos, nel caso in cui le parti politiche libanesi non riescano a superare quanto prima le divergenze fra loro e a formare una nuova squadra governativa. “Il Libano è in grave pericolo e i libanesi ne stanno pagando il prezzo”, sono state le parole di Diab.

Piera Laurenza. (Sicurezza Internazionale)

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