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Manovra d’emergenza USA: basi in Arabia Saudita per blindare il Mar Rosso

(Roma il 27 gennaio 2021). Gli Stati Uniti blindano la rotte del Mar Rosso. Sembrano essere queste le nuove linee guida del Pentagono per affrontare l’Iran e per rafforzare la propria presenza militare nel quadrante mediorientale. A ribadirlo sono stati Frank McKenzie, generale che guida il Comando Centrale Usa, e uno dei portavoce di Centcom, il capitano della Marina Bill Urban. I contatti sarebbero in corso già dal 2019, da quando gli impianti petroliferi sauditi di Aramco furono colpiti da un devastante attacco da parte di droni e missili provenienti dallo Yemen. I siti individuati sono quelli del porto di Yanbu e degli aeroporti di Tabuk e Taif, che formerebbero quindi una linea di comunicazione strategica in Arabia Saudita lungo tutta la dorsale del Mar Rosso. Una scelta dettata da diverse esigenze strategiche.

Da una parte Washington vuole tutelarsi in vista di una possibile escalation nel Golfo Persico rafforzando quindi il collegamento con il fronte iraniano nella parte occidentale della Penisola arabica. Per questo motivo, McKenzie ha spiegato a DefenseOne che questa scelta non si fonda su un cambiamento di postura rispetto agli alleati mediorientali, ma ha voluto definire la decisione parlando di “robustness”. “Aumenti il numero di basi da cui operare in modo che se sei colpito, puoi ricevere quel colpo, spostarti in un’altra posizione ed essere ancora in grado di operare”, ha spiegato il comandante di Centcom. L’idea dunque è quella di dare modo alle basi americane nell’area mediorientale di operare in caso di guerra senza essere proiettati in modo preponderante sulle coste del Golfo Persico, a tiro dei missili iraniani o rischiando di non ricevere rifornimenti via mare in caso di escalation nello Stretto di Hormuz. Motivo per il quale è stato autorizzato il dispiegamento del sistema israeliano Iron Dome.

Una scelta che per gli Stati Uniti risulta fondamentale nell’ottica di un confronto con l’Iran che Joe Biden vorrebbe evitare ma che non sembra rimuovibile dall’agenda della nuova Casa Bianca. Le trattative con Teheran proseguono, ma l’impressione è che per il momento la Repubblica islamica sia molto sicura: nessun cedimento sul nucleare finché gli Usa non rientrano completamente nell’accordo con tutte le clausole del 2015. Ipotesi vista con orrore da Israele, che non a caso ha già paventato l’ipotesi di un attacco preventivo. A ribadire la posizione israeliana è stato il capo di Stato maggiore delle Idf, il generale Aviv Kohavi, che in videoconferenza ha detto: “L’Iran può decidere di dirigersi verso la bomba. Alla luce di questa analisi, ho dato istruzione alle Idf di preparare vari piani operativi, ci stiamo lavorando e li svilupperemo durante l’anno”. E ha avvertito la Casa Bianca che il ritorno nell’accordo del 2015 “è una brutta cosa e non è la cosa giusta da fare”.

La mossa americana nasce però anche da altre esigenze, che riguardano la possibilità di controllare la rotta del Mar Rosso, quella che collega il Mediterraneo (e quindi l’Atlantico) all’Oceano Indiano. Washington controlla in modo pressoché totale le rotte che passano da Gibilterra a Suez. Anche con l’inserimento di nuovi attori la posizione del Pentagono non sembra essere ancora lesa, e lo dimostra il rafforzamento delle basi in Grecia, l’aver blindato le basi spagnole e avere ancora pienamente operativo il comando di Napoli. Il problema è oltre le porte di Suez, dove la corsa delle varie potenze esterne alla Nato (o interne ma recalcitranti come la Turchia) rischia di sfuggire di mano agli strateghi del Pentagono. Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia, Turchia e Cina sono ormai forze presenti e ben radicate in tutto il fronte del Mar Rosso, e dai confini del Sudan alle coste del Corno d’Africa, il controllo marittimo Usa appare meno forte rispetto a quello degli scorsi anni. E avere la possibilità di sfruttare il porto di Yanbu così come le basi aeree più interne aiuta il comando centrale americano a perdere il controllo di una rotta che è diventata fondamentale anche per Israele. La dimostrazione è arrivata con l’ultimo passaggio di un sottomarino israeliano avvistato a largo di Hormuz e l’avvertimento era arrivato anche dall’esplosione di una petroliera saudita a dicembre provocata da una nave-bomba.

Lorenzo Vita. (Inside Over)

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