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Come cambiano gli scenari con il ritiro delle forze USA da Iraq, Afghanistan e Somalia

(Roma 16 gennaio 2021). Scade oggi il termine ultimo per il ritiro di un totale di 3.200 militari statunitensi da Iraq, Afghanistan e Somalia, voluto con forza dal presidente uscente, Donald Trump, per ridurre il coinvolgimento militare di Washington in tre aree di crisi nelle quali le forze Usa sono presenti da decenni. La decisione è stata annunciata lo scorso 17 novembre dal segretario alla Difesa ad interim, Christopher Miller, e porta a una riduzione del personale militare statunitense da 3 mila a 2.500 unità in Iraq e da 4.500 a 2.500 unità in Afghanistan; in Somalia, invece, si assiste al ritiro completo dei 700 uomini finora impegnati nel Paese del Corno d’Africa. Tali cambiamenti sono destinati ad avere effetti rilevanti non solo sulla proiezione internazionale degli Stati Uniti, ma anche sul futuro di tre Paesi ancora alle prese con il terrorismo e con complessi processi di stabilizzazione.

Nel caso dell’Iraq, la mossa annunciata da Miller segna un’ulteriore tappa del ritiro graduale avviato dalle forze Usa dall’inizio del 2020, dopo l’assassinio – il 3 gennaio – del generale iraniano Qasem Soleimani, comandante della Forza Quds dei pasdaran, e di Abu Mahdi al Muhandis, vice comandante delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu) sciite irachene, e una conseguente escalation di tensioni fra le forze di Washington e le numerose milizie sciite e filo-iraniane attive in territorio iracheno. Il 5 gennaio 2020, sull’onda dell’assassinio di Soleimani, il parlamento di Baghdad ha approvato una mozione non vincolante per chiedere al governo di porre fine alla presenza di forze straniere sul territorio nazionale. Nei mesi successivi gli Usa hanno avviato trasferimenti da basi e magazzini, e hanno annunciato – il 28 agosto 2020 – un primo significativo ritiro di circa un terzo degli effettivi (allora circa 5.200) nei due o tre mesi successivi, pochi giorni dopo essersi ritirati (il 23 agosto) dalla base di Camp Taji, consegnata alle forze di sicurezza irachene. La scorsa settimana, il primo ministro iracheno Mustafa al Kadhimi ha confermato il prossimo ritiro di più di metà delle truppe statunitensi di stanza in Iraq, attive nel Paese nell’ambito della coalizione internazionale contro lo Stato islamico (Is). In un discorso tenuto in occasione del centenario dell’esercito iracheno, celebrato il 6 gennaio, Al Kadhimi ha detto che resterà nel Paese soltanto “qualche centinaio” di soldati Usa, allo scopo di compiere missioni di addestramento, armamento e sostegno tecnico.

Più complicato è il discorso relativo all’Afghanistan, dove gli Stati Uniti hanno programmato il ritiro di oltre 2 mila militari entro oggi. Proprio ieri, il presidente Trump ha annunciato che il livello delle truppe statunitensi in Afghanistan “ha raggiunto il minimo da 19 anni” a questa parte, senza tuttavia fornire dettagli. Lo scorso febbraio l’amministrazione Usa ha raggiunto un accordo con i talebani per ridurre gradualmente la presenza delle truppe americane e portarla a zero entro maggio 2021, anche se non è chiaro come procederà il presidente eletto Joe Biden. I comandanti statunitensi si sono affrettati ad approntare il ritiro ordinato da Trump, ma negli Stati Uniti il dibattito è aperto sulla legittimità della decisione del presidente uscente. Intanto, secondo il “Wall Street Journal”, Trump avrebbe stabilito l’ampliamento del comando per il Medio Oriente (Centcom), includendovi anche Israele. Si tratterebbe di una riorganizzazione dell’ultimo minuto, caldeggiata dai gruppi filo-israeliani per incoraggiare la cooperazione contro l’Iran.

La “mossa”, evidenzia il “Wsj”, indica che “il Centcom supervisionerebbe la politica militare statunitense che coinvolge sia Israele che le nazioni arabe, una deviazione rispetto a una struttura militare messa in atto a causa dell’acrimonia tra Israele e alcuni alleati arabi del Pentagono”. La trasformazione del Centcom, spiegano le fonti, “è stata stabilita di recente” da Trump, “ma non è stata ancora resa pubblica”. Finora la “responsabilità” statunitense nei confronti di Israele era stata affidata al comando europee. In seguito agli Accordi di Abramo, firmati il 15 settembre scorso a Washington da Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein, i gruppi filo-israeliani hanno intensificato il loro operato affinché il Centcom promuova una maggiore cooperazione tra Israele e i suoi vicini arabi. La notizia giunge a meno di una settimana dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca.

La decisione Usa di ritirare le sue truppe dalla Somalia, già nell’aria da diversi mesi, è stata annunciata ufficialmente dal presidente Donald Trump lo scorso 4 dicembre. Il ritiro coinvolge un totale di 700 militari impiegati nel Paese del Corno d’Africa per addestrare le forze locali – nello specifico l’unità speciale Danaab – a combattere contro il gruppo jihadista al Shabaab e i militanti dello Stato islamico. In vista del ritiro, lo scorso 22 dicembre una portaerei statunitense ha attraccato al largo delle coste della Somalia per procedere al trasferimento dei 700 militari Usa. L’operazione, ribattezzata “Octave Quartz”, è stata condotta dalla portaerei Makin Island Amphibious Ready Group e dal 15mo Marine Expeditionary Unit e prevede il trasferimento delle truppe in altre basi dell’Africa orientale, come Camp Lemonnier (a Gibuti) e Manda Bay (in Kenya), secondo quanto stabilito dal dipartimento della Difesa statunitense. Sebbene in una recente dichiarazione il Pentagono abbia tenuto a precisare che l’ordine di “riposizionare la maggior parte del personale e delle risorse fuori dalla Somalia entro l’inizio del 2021” non significhi un effettivo cambiamento nella politica degli Stati Uniti in Africa, la decisione ha destato non poca preoccupazione, specialmente per quanto riguarda il contrasto al terrorismo nella regione. Alcuni esperti hanno infatti avvertito del rischio che un ritiro degli Usa possa galvanizzare le milizie jihadiste in un momento appaiono in grande difficoltà.

La Somalia ha infatti sofferto per decenni di instabilità politica, ma negli ultimi anni la Missione di mantenimento della pace dell’Unione africana (Amisom), con il sostegno delle truppe statunitensi, è riuscita a riprendere il controllo di Mogadiscio e di vaste aree del Paese dalle forze di al Shabaab, gruppo affiliato ad al Qaeda che ha iniziato la sua insurrezione nel 2006. Nel caso specifico dell’unità Danaab (o brigata Lightning), questa si è dimostrata particolarmente efficace nella lotta contro gli insorti. Il ritiro delle truppe arriva peraltro in un momento particolarmente critico, con la vicina Etiopia che si trova alle prese con la crisi nel Tigrè che, sebbene conclusa ufficialmente sul piano militare, rischia di invischiare Addis Abeba in una lunga guerra di logoramento con le sacche di resistenza del Fronte di liberazione del popolo del Tigrè (Tplf) e di avere inevitabili ripercussioni anche sulla presenza etiope in Somalia: in tal senso, è notizia del novembre scorso che l’Etiopia ha deciso di ritirare da Mogadiscio circa 3.000 uomini della Forza nazionale di difesa, che non rispondono direttamente alla missione Amisom. Inoltre, le relazioni tra Kenya e Somalia sono al loro punto più basso da anni e le tensioni interne a Mogadiscio sono forti in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. In un tale contesto, il ritiro delle truppe Usa dalla Somalia potrebbe avere un enorme impatto sulla stabilità del Paese.

(Agenzia Nova)

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