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L’Italia in Libano (e nel mondo)

(Roma 10 settembre 2020). Conte, dopo Macron, è stato il secondo rappresentate di uno stato o di un governo a presentarsi in Libano all’indomani della tragedia del porto di Beirut. Ma in una veste e con credenziali assai diverse da quelle del suo predecessore.

Il primo era lì nella sua qualità di Protettore. Insieme del Libano e della sua specificità. E, come tale, autorizzato ad ammonire e, perché no, a « guidare da lontano ». Magari anche sulla base delle informazioni che gli arrivano da ogni parte e con i più diversi canali.

Il secondo è andato lì ad offrire aiuti. E basta. E munito di credenziali consistenti. Anche se molto diverse da quelle del presidente francese. Macron, o meglio la Francia ha dietro  di sé l’interventismo, il culto della francofonia, un disegno autonomo, almeno nelle intenzioni, a livello mondiale: il tutto rinverdito e riscoperto sotto il segno del gollismo. Conte ha dietro di sé un paese, almeno nelle intenzioni, amico di tutti e nemico di nessuno: perché imparziale, perché inoffensivo e perché degno di essere aiutato (anche se non necessariamente per i suoi meriti…). E, nello specifico, un paese che, praticamente unico in Europa occidentale, non ha subito, dalla metà degli anni settanta in poi, nessun attacco terroristico proveniente dall’esterno. Un fatto che gli atlantisti del nostro paese hanno attribuito ad oscuri accordi conclusi negli stessi anni settanta; ma che, nella sua sostanza politica e nella sua durata nel tempo, corrisponde ad un riconoscimento del ruolo da tutti i governi italiani da allora in poi (eccezione, Nassirya; ma lì il governo italiano, bloccato dal pontefice nel suo desiderio di seguire gli Usa nell’avventura bellica in Iraq, aveva riparato il suo torto nei confronti dell’amico Bush, precipitandosi per fargli vincere il dopoguerra).

Credenziali presenti anche nel caso del Libano. A partire dall’atteggiamento adottato dal contingente italiano, guidato dal generale Angioni, nelle drammatiche vicende del 1982: segnato dall’invasione israeliana, dall’assassinio del presidente Gemayel e dal successivo massacro di Sabra e Chatila, a metà percorso di una guerra civile che sarebbe durata quindici anni. Allora il contingente si adoperò espressamente per mantenere buoni rapporti con tutte le « fazioni in lotta » (così si diceva in Italia a giustificazione del fatto che non si prendeva posizione…). Con il risultato di essere risparmiati dagli attacchi terroristici che avrebbero colpito italiani e francesi.

Queste credenziali sarebbero state poi ampiamente rinverdite dalla presenza di un forte contingente italiano nella forza di interposizione nel Libano nel Sud, in base ad un mandato di controllo e di mantenimento della pace svolto con il concorso sostanziale di tutti; e simboleggiato da un ruolo di comando spesso attribuito a un generale italiano.

Immediatamente dopo la fine della guerra civile una missione italiana sarebbe stata tra le prime ad arrivare per verificare le priorità da sotenere nel processo di ricostruzione, seguita, anni dopo, dalla visita del presidente D’Alema, convinto della sua capacità di coltivare buoni rapporti sia con  la segretaria di stato Albright che con Hezbollah.

Forse una parte della popolazione libanese avrebbe considerato tutto ciò insufficiente o sbagliato. Ma, a riparare il tutto c’erano sempre la Chiesa e il papa. E questi risiedevano a Roma…

A confortare gli interessati e a dimostrare che il caso libanese non è un caso particolare, due considerazioni conclusive.

La prima ha a che fare con una politica mediorientale perseguita con coerenza da tutti i governi italiani di qualsiasi colore politico: dal sostegno alla rivoluzione algerina all’interesse attivo per la causa palestinese, sino ai buoni rapporti intrattenuti con Gheddafi (salvo all’essere trascinati, per stupida viltà, nello sciagurato intervento del 2011) e alla politica del non coinvolgimento nella tragedia siriana.

Si dirà che, negli anni più recenti, elemento fondamentale della nostra politica internazionale sia stato la crescente consapevolezza della nostra debolezza. Esemplificata dal vergognoso atteggiamento tenuto nel caso Regeni dove ci siamo lasciati prendere in giro, anzi offendere apertamente dagli egiziani senza reagire. Ma anche lì ci è andata, tutto sommato, bene. Continuiamo a fare affari; e gli italiani, abituati ormai ad indignarsi solo per cause che li riguardano direttamente (e, per inciso, la Palestina non è certo tra queste) non hanno fatto una piega.

Come ci è andata bene in tutti gli altri campi: sviluppando i nostri rapporti con la Cina pur confermando la nostra granitica fedeltà agli Stati uniti, all’Europa e alla Nato. Essendo amici della Russia pur votando le sanzioni nei suoi confronti. E, ancora, amici, insieme , dell’America di Trump e dell’Europa della Merkel; sino a godere della simpatia, talvolta anche fattiva, del primo e dell’aiuto massiccio della seconda. E dello stesso Iran, senza fare nulla per aiutarlo. Riuscendo, da ultimo, a rientrare, almeno economicamente, in Libia, grazie a quell’accordo tacito con i turchi, leggi con Erdogan: l’ultimo tra gli Uomini neri ad essere oggetto dell’indignazione universale.

L’essere deboli, ma al tempo stesso inoffensivie amici di tutti talvolta giova e come. Almeno per un certo periodo di tempo.

(Alberto Benzoni)

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