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Arabia, Qatar, Egitto e quel silenzio pragmatico

(Roma, 14 giugno 2025). Israele in campo per ridisegnare lo «scacchiere». E pure il Sultano Erdogan strilla, ma sta a guardare

L’attacco israeliano all’Iran non è soltanto un tentativo di azzerare il suo programma per la realizzazione della bomba nucleare, né si limita a rappresentare una resa dei conti con il regime islamico che ha giurato di distruggere lo Stato ebraico. Esso mira molto più in alto e prefigura, almeno nelle intenzioni di Netanyahu, una rivoluzione completa nello scacchiere mediorientale. Dà un senso diverso, quasi propedeutico, a venti mesi di guerra cominciati a Gaza con la reazione militare israeliana all’aggressione terroristica subita il 7 ottobre 2023 da parte di Hamas. E costringe, in ultima analisi, tutti i soggetti statuali e «militanti» della regione a riconsiderare la propria posizione alla luce di quello che potrà configurarsi nei prossimi giorni come un indebolimento del regime degli ayatollah o, nell’ipotesi più estrema e certamente desiderata a Gerusalemme, addirittura come la sua clamorosa caduta.

Assistiamo alla decapitazione del regime di Teheran con modalità molto simili a quelle che Israele ha utilizzato in questi venti mesi per sbarazzarsi di una serie di milizie regionali che l’Iran armava contro Israele: la morte violenta dei più alti generali e consiglieri di Khamenei appare ora come la logica conclusione di un percorso di omicidi mirati che hanno tolto di mezzo i capi di Hamas (Haniyeh e i fratelli Sinwar), il leader carismatico di Hezbollah in Libano Nasrallah e la sua intera linea di comando militare. Ma comprendiamo meglio ora il senso di un’intesa sottobanco con la Turchia per disfarsi del dittatore di Damasco Bashar al Assad, togliendo all’Iran, con la Siria, il tassello più importante del suo «sistema di resistenza» anti israeliano.

E se oggi sia la Turchia di Erdogan che l’Arabia Saudita di Mohamed bin Salman condannano a parole gli attacchi israeliani alla Repubblica Islamica dell’Iran, nemmeno adesso sembra di veder sorgere contro Netanyahu quel fronte musulmano che i capi di Hamas avevano invano sperato di suscitare contro «l’entità sionista» dopo l’inevitabile sua reazione contro i palestinesi della Striscia di Gaza.

I Paesi musulmani mediorientali stanno a guardare. Osservano gli effetti del dispiegamento della potenza militare israeliana contro il suo nemico regionale più grande e determinato. Attendono di vedere se la minacciata devastante reazione iraniana avrà luogo e quali risultati sarà in grado di conseguire. Sanno che, al di là di una retorica pacifista e di un minuetto diplomatico poco convincente, la superpotenza americana sostiene di fatto Israele in questa che è molto più di una «operazione speciale», per dirla alla Putin: è l’avvio per mezzo della forza di una partita che può avere come posta anche il riposizionamento di tutti i soggetti mediorientali, nessuno escluso.

Né l’Arabia Saudita, né l’Egitto, né l’ambizioso Qatar, né gli Emirati Arabi e nemmeno la potenza regionale turca hanno la forza per contribuire a determinare ciò che accadrà in Iran nei prossimi giorni: per questo attendono di vedere cosa resterà in piedi del regime degli ayatollah e si regoleranno di conseguenza. In particolare, i Paesi dei Patti di Abramo e la nuova Siria dell’ex jihadista Al Sharaa sono in realtà pronti a rapporti ancor più pragmatici con Israele. Rimarrà però da sciogliere l’eterno nodo : quello palestinese.

Di Roberto Fabbri. (Il Giornale)

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