(Roma, 28 febbraio 2025). Da buon mercante di cavalli, Donald Trump era riuscito, in una sola settimana, a virare da “Zelensky è un dittatore” a “Zelensky è il miglior presidente per l’Ucraina, sono ansioso di lavorare con lui”, passando (per la gioia dei meme russi) dall’ipotesi di accordo sui minerali e le terre rare. Ipotesi e basta, a questo punto, perché nelle scorse ore, alla Casa Bianca, in occasione dell’incontro tra Donald Trump (e il suo vice J.D. Vance) e il Presidente ucraino al posto degli abbracci sono volati gli stracci. Già la partenza era stata in salita, con Trump che accoglieva Zelensky alla Casa Bianca osservando sarcastico che “questa volta si è vestito di tutto punto”. E il resto è stato tutto su questa linea, com’è facile verificare con le immagini disponibili in Rete e soprattutto con la trascrizione degli scambi furibondi che i tre si sono rivolti.
Si è sentito (perché a un certo punto erano urla vere) davvero di tutto. Trump che dice “grazie a quello stupido presidente (Joe Biden, n.d.r) vi abbiano dato 350 miliardi di dollari, vi abbiamo dato equipaggiamento militare…”. J.D. Vance che chiede a Zelensky: “Hai detto grazie una sola volta durante questo incontro ?”. Zelensky che, in modo pungente, paragona le previsioni di Trump sulla durata della guerra senza l’appoggio Usa (due settimane) alle analoghe previsioni di Vladimir Putin (tre giorni). Il tutto durante un litigio vero, con frasi al vetriolo e al limite dell’insulto, chiuso con la frase minacciosa di Trump: “Se non firmiamo questo accordo, noi siamo fuori”.
Le famose “garanzie di sicurezza”
È difficile prevedere, ora, come potrà evolvere una situazione che sembrerebbe pesantemente compromessa. Possiamo solo provare a trarre qualche conclusione. L’atteggiamento di Trump, nei giorni precedenti questo disastroso incontro, era quello di un sovrano che si appresta ad accogliere un vassallo. Tutti ricordano la famosa frase: “Mi dicono che Zelensky arriva venerdì, per me va bene”. Dunque nella sua ira e in quella di Vance è possibile riscontrare una qualche forma di sorpresa, come se non stessero ricevendo ciò che si aspettavano di ricevere. Evidentemente l’accordo sui minerali e le terre rare non era così concluso come era stato fatto trapelare nei giorni scorsi. E dalle parole di Zelensky, prima che si aprisse la rissa verbale, è parso di capire che il Presidente ucraino non abbia ricevuto quelle “garanzie di sicurezza” per il futuro che ritiene necessarie prima di sedersi a un tavolo negoziale con Putin.
Queste famose “garanzie”, di cui si parlava già nel marzo 2022 all’epoca delle prime trattative in Bielorussia, sono cambiate nel tempo, addirittura nelle ultime settimane. L’ingresso nella Nato? La risposta di Trump è stata chiarissima: “Forget it”, non se ne parla nemmeno. La restituzione delle armi atomiche cedute alla Russia nel 1994 in cambio di una “garanzia di sicurezza” poi clamorosamente violata dal Cremlino? “Possibilità pari a zero”, ha replicato Keith Kellog, l’inviato di Trump per l’Ucraina. Truppe Usa come forza di pace? Trump ha escluso pure questo. Restano le armi americane, condizionate però alla firma dell’accordo sui minerali. Che a quanto pare ancora non c’è. Resta l’Europa. Che però, anche solo per immaginarsi nel ruolo di peacekeeper, chiede l’ombrello degli Usa (figuriamoci) o quello dell’Onu (figuriamoci) o di chissà chi, mentre fatica a varare un piano collettivo di riarmo di fronte a quella che considera la minaccia permanente della Russia.
La strada stretta di Zelensky
Resta, in tutto questo, la strada stretta su cui è costretto a muoversi Volodymyr Zelensky. Dell’Europa e delle sue capacità di mobilitazione, il presidente ucraino palesemente non si fida. O non se ne fida abbastanza. Ha detto e ripetuto che il baluardo dell’Ucraina sono gli Usa. I quali, purtroppo per lui, sono ora molto diversi da quelli rappresentati da Joe Biden (lo “stupido”, secondo Trump). Oltre alle sfide esterne, Zelensky deve fronteggiare anche quelle interne. Perché finché dura la guerra, anche la politica interna all’Ucraina è bloccata. Non si tengono le elezioni (lo vieta la Costituzione in tempo di legge marziale), non c’è ricambio (e quindi la maggioranza parlamentare è saldamente in mano a Servo del popolo) e non c’è movimento. Infatti a parte l’ex consigliere Oleksyj Arestovich (il classico che entra in conclave Papa e ne esce cardinale, anche perché si candida da solo), tutti tacciono. Ma il giorno in cui si arrivasse a una qualche forma di cessate il fuoco, tregua o (vedi mai) pace, tutto ripartirebbe. E allora sì che per Zelensky si potrebbe materializzare il fantasma di Banco, di quel generale Zaluzhny, immolato sull’altare della politica dopo essere stato esaltato come stratega sublime ed eroe della patria.
È piuttosto evidente, quindi, che per Zelensky l’unico modo per “sopravvivere” (cioè per ottenere il meglio per il suo sofferente Paese e per se stesso) è ottenere il massimo dagli Usa (la famose “garanzie”) e poi giocarsele come importante risultato diplomatico dopo la resistenza militare. Ma le urla della Casa Bianca hanno complicato di molto le cose, che già non erano semplici.
Di Fulvio Scaglione. (Inside Over)