Il silenzio dei Talebani sulla crisi tra Israele e Hamas

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(Roma, 27.10.2023). Nell’intricata e tragica vicenda che attanaglia nuovamente il Medio Oriente dal 7 ottobre scorso, la sollevazione della Umma tra Maghreb, Asia e Africa è stata la conseguenza macroscopica più evidente: piazze traboccanti di sostenitori della causa palestinese a Istanbul come a Beirut, Tunisi, Amman, Teheran, Tripoli, solo per citarne alcune. Ma nel panorama politico del mondo islamico, dopo quasi tre settimane, figura un grande assente: l’Afghanistan dei Talebani.

Il silenzio della leadership dei Talebani

Il loro leader Hibatullah Akhundzada si è da subito mostrato particolarmente cauto e silente di fronte agli avvenimenti che hanno portato a un nuovo scontro tra Israele e Hamas. Il suo secondo, il mullah Mohammad Hassan, e la pletora di vari vice che li accompagna, li hanno assecondati in questa reticenza. Sebbene Akhundzada sia il meno “social” della leadership afghana, questo non ha mai impedito ai Talebani di far propaganda nell’etere sulle piattaforme ove di consueto veicolano i loro messaggi. Un atteggiamento pilatesco che ricorda vagamente le prime battute della guerra in Ucraina, quando i media di tutto il mondo avevano additato con scherno i messaggi dei Talebani, che chiedevano pace e misura. Ma questa volta c’è qualcosa di più, una volontà precisa di non immischiarsi con le vicende mediorientali, sebbene il loro ingombrante vicino, l’Iran, sia in prima linea nella guerra contro Israele. Tanto che a rompere il silenzio è stato unicamente il ministro degli In terni ad interim, Sirajuddin Haqqani, ricercato d’alto bordo dal governo degli Stati Uniti, che ha dichiarato “Non interferiamo negli affari interni altrui, am abbiamo una simpatia basata sulla fede nei confronti dei musulmani“. “Simpatia”, dunque. Una dichiarazione sterile quanto peculiare, considerando che la lotta per la Palestina è l’espressione paradigmatica della battaglia esistenziale dell’Islam. Non solo, ma il 10 ottobre scorso, a poche ore dall’attacco di Hamas, il gruppo aveva dichiarato che non avrebbe inviato alcun combattente a Gaza e che non avrebbe preso parte ad alcun tipo di attività nell’area.

L’atteggiamento dei “nuovi Talebani” dal 2021

Al di là della quantità dei messaggi pervenuti dai Talebani, che secondo alcuni analisti è comparabile a quella di altre situazioni, la qualità mostra un altro aspetto della vicenda. I Talebani, infatti, non possiedono legami formali con Hamas, e dunque si limiterebbero a offrire il loro sostegno esclusivamente al popolo palestinese. Tuttavia, nei pochi sparuti messaggi che condannano l’assedio di Gaza da parte di Israele, appare assente la consueta retorica di un gruppo che ha spesso invocato il sostegno divino nel combattere l’Occidente e il suo braccio armato, la NATO. Singolare il fatto di non profittare da un’occasione ghiotta, come l’escalation nell’area, per non sciorinare i consueti refrain a cui i Talebani hanno abitato dal 2001 in poi.

In questa considerazione va anche però ricordato che tra quei Talebani e questi, intercorre quasi una generazione: come avevamo analizzato da queste colonne all’indomani della fuga americana dall’Afghanistan, sono mutate le percentuali del loro Dna. Negli anni Novanta il gruppo era costituito prevalentemente da fondamentalisti islamici, animati dalla voglia di rivalsa contro l’Occidente, ottuso rifugio nell’Islam per un mondo che non ha mai conosciuto il concetto di statualità. Oggi di quella matrice coranica c’è ancora una buona dose, tuttavia non è più il motore propulsore del loro operato, al massimo uno strumento. E, dunque, ai nuovi Talebani conviene poco imbarcarsi in battaglie cosmopolite faticose: il jihad non porta loro vantaggi pratici di nessun tipo, tanto vale lasciar perdere la santità islamica e fare anche loro un nuovo gioco che passa dal ritiro americano e dalle ambizioni russe e cinesi.

Le voci afgane che puntano il dito contro i Talebani

Un atteggiamento anche rischioso, in patria. Numerosi ex leader e personalità influenti afgane hanno “rimproverato” ai Talebani la vacuità delle loro risposte. Tra questi l’ex governatore della provincia di Balkh, Ata Mohammad Noor che ha pubblicato un video, contenente un audio in cui la voce di una donna invita i Talebani a difendere Gaza.

Anche la voce di una donna, Mariam Solaimankhil, parlamentare afghana, si è unita al coro delle critiche, incalzando i Talebani con le sue richieste di unirsi alla lotta palestinese. Singolare un suo tweet che commenta un documento-non ancora verificato- che impedirebbe alla leadership ideologica dei mujaheddin di abbandonare il Paese per andare a combattere a Gaza. Un divieto che verrebbe punito a norma di legge. La parlamentare si scaglia contro questo presunto provvedimento, accusando “il vero volto dei Talebani” di essere buono solo a “uccidere gli Afghani”.

Talebani vs. Hamas: interpretazioni dell’Islam e l’ombra dell’Isis-K

La questione è innanzitutto ideologica: Hamas riceve finanziamento e supporto militare dall’Iran sciita e questo i Talebani lo accettano con enorme difficoltà. In secundis, gli accordi di Doha del 2020 vedono impegnati i Talebani nell’impedire che in Afghanistan possa emergere qualsiasi minaccia agli Stati Uniti o ai loro Alleati. Questo implica che filippiche e invettive, sebbene non costituiscano appoggio logistico (il che farebbe scattare la violazione degli Accordi), potrebbe mettere in discussione lo status quo raggiunto nell’estate di due anni fa: un grattacapo che Washington, ora come ora, non vorrebbe mai avere e che alla leadership di Kabul arrecherebbe solo danni e ulteriore isolamento.

Ma c’è un altro spauracchio che fa leva sui timori dei Talebani: la cosiddetta Isis-K, branca afghana dello Stato Islamico. La variante afghana dell’Isis ha una genesi relativamente recente ed è andata raccogliendo proseliti negli ultimi sette anni, essendo la firma dei principali attacchi alla capitale Kabul, “contendendosi” con i Talebani target militari e civili. Questa divisione nasce da rivalità interne al Paese, fondate sulle divergenze con i pashtun, rei di mercanteggiare con la Cia e l’Occidente intero. La branca K dello Stato islamico, inoltre, segue una rigida interpretazione salafita dell’Islam. La nascita del gruppo è da registrarsi nella provincia del Khorasan, al confine con il Pakistan, dove numerosi comandanti disertori delle forze talebane scelsero la bandiera nera. A differenza dei Talebani, l’Isis-K aveva espresso palesemente l’intenzione di lanciare attacchi alle potenze occidentali. L’Isis-K, inoltre, non ha sostenuto Hamas per via dei suoi legami con l’Iran: il rischio è, dunque, che ad una mossa dei Talebani possa corrispondere una sua contromossa, sia in senso sodale-una solidarietà nuova e ritrovata, oltre che di comodo- o, addirittura, come sfida ai risultati di Hamas progettando qualcosa di ancora più lesivo di ciò che è accaduto in Israele. Ipotesi che dipendono anche dall’entità della forza del gruppo K, che restano ancora ignote.

Di Francesca Salvatore. (Inside Over)