Lega Araba: il vertice più importante dell’ultimo decennio

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(Roma, 23.05.2023). Dal vertice della Lega Araba escono spunti di interesse: la presenza di Assad e le questioni attorno alla Siria, il lavoro di Zelensky e il ruolo centrale dell’Arabia Saudita

La riunione della Lega Araba dell’ultimo fine settima è stata “una delle più importanti, dal punto di vista analitico, di questi ultimi dieci anni”, spiega a Formiche.net una fonte diplomatica regionale che preferisce non essere menzionata. C’è stato il ritorno di Bashar El Assad dopo la lunga esclusione legata alla guerra civile iniziata nel 2011. C’è stata la presenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha messo quei Paesi davanti al “peso delle dinamiche globali”, continua a spiegare la fonte. C’è stato un ruolo di rilievo giocato dalla nazione ospitante, l’Arabia Saudita, che “ha usato il vertice per mandare messaggi sulla sua posizione geopolitica”.

Il ritorno di Assad

Stupri, eccidi e persecuzioni di massa, attacchi chimici e con mezzi fuori dalle convenzioni di guerra (come le barrel bomb), che hanno prodotto qualcosa come 500mila morti sono stati praticamente cancellati dalla testa di Assad in nome di un pragmatismo apparentemente spietato. Il rais che ha ridotto la Siria a un tasso di povertà attorno al 90% e escluso il 70% dei cittadini dall’accesso all’acqua potabile, ha riportato il Paese nella Lega Araba. Assad è stato protagonista di diverse foto di rito con i leader dell’organizzazione, apparentemente a loro agio con la sua presenza.

Accettata la sconfitta, e dunque la vittoria del regime, i Paesi ricchi del Golfo — che avevano sostenuto le opposizioni — si ritrovano a dover gestire due ordini di problemi legati alla Siria. E per farlo hanno scelto il dialogo con Assad, più che contrastarlo e guerreggiare con lui — frutto anche di una fase in cui gli equilibri regionali si stanno modificando, secondo un flusso di distensione dei rapporti. Da una parte Damasco è diventata una piattaforma operativa dei Pasdaran, le forze militari della teocrazia sciita iraniana che hanno come nemici giurati i regni sunniti e gli ebrei, e dunque i contatti non possono essere del tutto rotti. Da un’altra c’è da gestire in ottica securitaria un potenziale rientro in Siria dei milioni di profughi fuggiti dal regime e dalla guerra, e poi da controllare il traffico regionale di anfetamine.

L’arrivo di Zelensky

Con ogni probabilità, una Siria ancora governata da Assad non sarà una garanzia per il rientro dei profughi (chi accetterà di correre il rischio di rivivere le atrocità del passato?), né è chiaro quanto il rais possa fare per il narcotraffico dal suo Paese (business in cui la famiglia del satrapo siriano potrebbe essere coinvolta). Tanto meno se vorrà o potrà ridimensionare il ruolo dei Pasdaran (che significa anche quello delle milizie sciite connesse all’Iran). Un aspetto è sicuro: Assad è un alleato russo — e in effetti deve all’intervento militare di Mosca in Siria la sua vita, letteralmente — e ha scelto il rientro nella Lega Araba per ricordarlo. Con i riflettori addosso, si è tolto l’auricolare della traduzione mentre il presidente ucraino Zelensky parlava dei crimini di guerra russi, marcando, visibilmente infastidito, un disinteresse palese che è nella forma differente da quello dei colleghi dell’organizzazione, ma che per qualche vettore di sostanza ha similitudini.

Se Assad ha fatto una mossa pro-Russia, diversi altri Paesi della Lega — a cominciare dai grandi: Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto — intendono evitare sbilanciamenti e mantenere una posizione neutrale; intrattengono rapporti con Mosca; cercano di approfittare di ciò che accade sia sul piano economico-commerciale (con i nuovi introiti legati allo scombussolamento del mercato energetico) che su quello politico internazionale (i Paesi della Lega Araba si considerano se non disinteressati dal conflitto al più potenziali mediatori, come successo in alcuni scambi di prigionieri facilitati dalle nazioni del Golfo).

Il peso saudita

Tra tutti, è Riad a voler cercare nel contesto un ruolo il più centrale possibile, rivendicandolo anche nella riunione dei giorni scorsi. Il Paese di Mohammed bin Salman – erede al trono e inusualmente primo ministro con ormai in mano le chiavi del regno – è all’offensiva geopolitica. Ha messo fine alla disputa nel Consiglio di Cooperazione del Golfo con il Qatar (non troppo contento dalla riammissione di Assad, ma questo è un aspetto per ora secondario e frutto anche delle volontà di Doha di essere, adesso, più disponibile con l’Occidente); ha smorzato, tramite la Cina, le tensioni con l’Iran (anche se il comportamento di Teheran potrebbe non cambiare). Non è un caso se Riad si è intestata da sé anche l’invito a Zelensky. Se però l’opportunità concessa all’ucraino può ricevere feedback positivi dall’Occidente, soprattutto da Washington, le frecciate lanciate contro Israele avranno un effetto differente.

All’interno dell’amministrazione Biden c’è fiducia nella possibilità di aprire le relazioni tra Riad e Gerusalemme, ma nella penisola araba questo convincimento è relativo. Ossia, ci sarà prima o poi un rapporto tra i due Paesi, ma sarà un processo complesso — e forse tra i sauditi c’è chi valuta pro e contro di un accordo con Israele vedendoli adesso sbilanciati verso un maggiore interesse nel restare fermi con lo status quo, per poter così esercitare maggiore influenza regionale e un maggiore consenso interno.

La normalizzazione con il governo più a destra della storia israeliana non è certo attraente per Riad e per i sauditi, e sebbene il regno sia distante dal concetto di ascolto dei cittadini che c’è in una democrazia, bin Salman sa che per governare il processo di potere che si è intestato serve di non essere odiato dalle sue collettività (il “rischio Siria” esiste ancora). Per questo, durante il suo intervento davanti agli altri leader della Lega ha definito la questione della Palestina “la più importante per il mondo arabo”. Bin Salman è consapevole che la sua agenda politica richiede massima concentrazione sul quadro interno, e cerca — come nel caso della normalizzazione con la Siria o con il Qatar — di lavorare per distensioni e stabilità con accortezza. D’altronde, come raccontato durante i Mondiali qatarini, parte degli arabi hanno ancora a cuore la causa palestinese.

Di Emanuele Rossi. (Formiche)