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Perché il petrolio russo sta dividendo l’Europa (e non solo)

(Roma, Parigi, 05 maggio 2022). Il no di Ungheria e Slovacchia all’embargo Ue potrebbe essere la foglia di fico di un mondo che non è pronto (o non vuole rinunciare) all’oro nero di Putin

Potrebbe essere la prima sanzione a colpire al cuore il sistema di potere di Vladimir Putin e l’economia russa, che finora hanno resistito alle misure punitive dell’Occidente contro l’invasione in Ucraina. Ma la proposta della Commissione europea di attuare un embargo sul petrolio di Mosca a partire dal 2023, come d’attese, sta facendo emergere le divisioni e le debolezze interne all’Ue. E non solo. I governi dei 27 Stati membri non hanno ancora trovato un’intesa. Gli ostacoli sono tanti. Vediamo quali.

L’oleodotto Druzhba

Il primo problema da affrontare è il veto di Ungheria e Slovacchia. Ogni sanzione Ue nei confronti di un Paese terzo, per essere approvata, ha bisogno dell’unanimità. E Budapest e Bratislava hanno chiarito, già prima che la Commissione europea facesse la fuga in avanti proponendo un sesto pacchetto di sanzioni, che non sono intenzionate a mettere la loro firma su un embargo immediato all’oro nero della Russia.

Il loro problema è la forte dipendenza dal petrolio che arriva attraverso l’oloedotto Druzhba. L’intero approvviggionamento di petrolio della Slovacchia dipende da questo oleodotto. Per l’Ungheria, rappresenta i due terzi delle forniture. Anche altri Paesi Ue (Germania, Finlandia e Bulgaria, per esempio) hanno lo stesso tasso di dipendenza dal petrolio russo. Ma Budapest e Bratislava hanno una debolezza in più: non hanno sbocchi sul mare, il che rende più complicato sostituire le forniture via oleodotto con quelle che per esempio potrebbero arrivare via mare da altri produttori di greggio.

Petroliere e bandiere

Anche la Repubblica ceca non ha sbocchi sul mare e ha mosso le stesse riserve, chiedendo all’Ue che l’eventuale embargo venga effettuato in modo più graduale nel tempo, o di venire esentata per un certo periodo dallo stop al petrolio russo, come chiedono Slovacchia e Ungheria. Grecia, Malta e Cipro hanno invece lo sbocco sul mare, e l’oleodotto Druzhba non è affar loro. Ma elevare un embargo al petrolio russo vuol dire anche bloccare le petroliere che trasportano i carichi di greggio. E su questo, gli armatori greci, che rappresentano un pezzo importante del potere ad Atene, non sembrano molto d’accordo: « La Grecia non vuole rinunciare ai lucrativi contratti di spedizione di petrolio per la Russia », ha riassunto Politico.

Per la Commissione, però, il divieto sulle petroliere è fondamentale per evitare che Mosca aggiri l’embargo: non basta colpire quelle battenti bandiera russa, ma anche le petroliere di altri Paesi, come appunto la Grecia, che trasportano il greggio dai giacimenti cari al Cremlino nei porti di tutto il mondo. Secondo una ricerca del Polish economic institute (Pei), già da settimane le circa 700 petroliere russe starebbero cambiando bandiera per aggirare le sanzioni. In gergo, sono chiamate « bandiere di comodo », e sono usate da tempo come metodo per pagare meno tasse e aggirare sanzioni internazionali, non solo dalla Russia (si pensi all’Iran).

Il Pei segnala che ad aprile nei porti russi c’erano ormeggiate 15 petroliere dei Paesi più noti per usare bandiere di comodo (Bermuda, Hong Kong, Liberia e Isole Marshall), con una capacità di carico di circa 13 milioni di barili di petrolio, oltre a 12 petroliere di Grecia, Cipro e Malta, in grado di trasportare oltre 9,6 milioni di barili. Bruxelles vuole prima di tutto assicurarsi che gli armatori europei non trasportino più petrolio prodotto da Mosca, sia che lo portino nell’Ue, sia che lo consegnino ad altri Paesi, come la Cina, che potrebbero rimpiazzare le forniture europee. Ma anche questo aspetto dell’embargo proposto non fa l’unanimità

Il ruolo di Berlino

Gli ostacoli sollevati da un pezzo dell’Ue erano chiaramente noti da tempo alla Commissione europea. Ma la presidente Ursula von der Leyen, dopo qualche giorno di ritardo, ha deciso di rompere gli indugi. È probabile che a darle una sponda siano stati i membri del governo tedesco, in particolare i Verdi, che hanno spostato la Germania verso una posizione favorevole all’embargo sul petrolio. Il giorno prima della presentazione della proposta di Bruxelles, il vicecancelliere tedesco e ministro dell’Economia Robert Habeck aveva dichiarato: “In passato abbiamo avuto una forte dipendenza dalla Russia (per il petrolio, ndr). Prima dell’inizio della guerra era del 35%. Ora l’abbiamo ridotto al 12% ». Già nei giorni scorsi, Berlino si era mossa per trovare alternative al greggio russo, facendo sapere di essere pronta a dirvi addio entro la fine dell’anno. Ma questo non vuol dire che la Germania non abbia grossi problemi da affrontare.

Il principale ostacolo riporta al già citato oleodotto Druzhba: la Germania, spiega Energy Monitor, riceve il suo petrolio da tre sistemi di oleodotti, uno da sud che arriva dall’Italia, uno da ovest che proviene dai porti tedeschi e olandesi nel Mare del Nord, e infine a est c’è il terminale di Druzhba. Chiudere questa fonte non sarà facile. Il piano è di sostituire il greggio russo che alimenta l’est del Paese (secondo la raffineria di Schwedt, nove auto su dieci nei land della Germania orientale di Berlino, Brandeburgo e Meclemburgo-Pomerania funzionano con greggio russo trasformato) con quello proveniente da ovest, ma ci sono dei problemi tecnici non da poco, compreso il fatto che « il greggio proveniente dall’ovest è diverso dal greggio proveniente dalla Siberia ». Altro problema riguarda il diesel, da cui dipende un pezzo importante dell’industria auto tedesca: il 15% di quello usato in tutto il Paese arriva oggi dalla Russia. Si tratta di una criticità non solo per la Germania, ma anche per altri Paesi Ue. E non a caso la proposta della Commissione europea concede due mesi in più agli Stati per l’eliminazione graduale delle importazioni di petrolio raffinato da Mosca.

Chi sostituirà il petrolio russo ?

Oltre ai limiti esposti sopra, a Bruxelles c’è un altro tema che tiene banco nelle riunioni dei governi Ue: chi ci fornirà petrolio al posto di Mosca, tanto più se si vuole accelerare sui tempi dell’embargo? Nel lungo termine, il problema è di facile soluzione: il mercato del greggio, a dispetto di quello del gas, è molto più flessibile. Andrei Belyi, professore finlandese e fondatore della società di consulenza energetica Balesene OÜ, cita « Opec, Norvegia, Regno Unito, Nord America e Africa », ma anche Azerbaigian e Kazakistan. Più difficile trovare fonitori affidabili nel breve termine: ci sarebbero « Iraq, Libia e Iran, ma ognuno di questi tre ha i propri problemi », dice Belyi a Energy Monitor. Iraq e Libia, come è noto, non sono certo dei Paesi stabili. Mentre l’Iran era visto in Occidente come il male assoluto fino a qualche tempo fa, soprattutto a Washington. Passare da un regime autoritario all’altro non è certo un bello spot. Non a caso, proprio in queste settimane, è tornato in ballo l’accordo sul nucleare con l’Iran, raggiunto nel 2015 da Teheran con Usa, Regno Unito, Cina, Francia, Germania e Ue. L’accordo era stato bloccato nel 2018 da Donald Trump, e adesso Bruxelles e Washington stanno ragionando se sbloccarlo o meno. E con esso le petroliere iraniane.

Inflazione e povertà energetica

Quale che siano le alternative che l’Ue troverà al petrolio russo, un aspetto appare sicuro: l’embargo europeo, più di quello di Usa e Regno Unito, comporterà un effetto a catena che spingerà in alto i prezzi del greggio in tutto il mondo. Il petrolio russo ha il vantaggio per i Paesi Ue di essere più economico di altri sul mercato mondiale. E a differenza del gas, con il conflitto è diventato ancora più conveniente. Anche Mosca ha tutto l’interesse a mantenere i partner europei, che hanno più risorse e affidabilità della Cina, a dispetto di quanto Vladimir Putin voglia far credere sventolando il rinnovato amore con Pechino. Considerati poi i problemi dei potenziali sostituti per l’Ue (Libia, Iran e Iraq), per gli analisti è sicuro che l’embargo provocherebbe un’impennata dei prezzi del barile su scala mondiale e aggraverà l’inflazione, in Europa come negli stessi Stati Uniti.

È una prospettiva che non piace a Washington, anche per le conseguenze sulla politica interna nel breve termine (il presidente Joe Biden è sotto accusa per l sua gestione dell’economia), e su quella estera (il rischio di venire messi con le spalle al muro sull’accordo con l’Iran). Senza dimenticare l’impatto sociale: « L’embargo petrolifero avrà un impatto sulle case, sui posti di lavoro e sui portafogli dei cittadini dell’Ue », ha detto l’eurodeputata belga dei Verdi Sara Matthieu. « Ciò potrebbe portare a una maggiore disuguaglianza sociale, un aumento della disoccupazione e un aumento della povertà energetica. Dobbiamo proteggere i nostri cittadini: abbiamo bisogno di una forte risposta sociale alle loro paure », aggiunge. Ecco perché c’è chi ha proposto una sorta di Recovery bis sul modello di quanto fatto con la pandemia di Covid-19. Ma come dice l’adagio, i soldi non crescono sugli alberi. E i falchi dell’austerity sono già pronti a fare le barricate.

La sensazione a Bruxelles è che dietro i timori dichiarati da Ungheria e Slovacchia, ci siano in realtà mal di pancia più ampi e diffusi, in Ue come nel resto dell’Occidente. Budapest e Bratislava, in altre parole, sono la punta dell’iceberg. O la foglia di fico di un mondo che non si sente ancora pronto a dire addio (o non vuole rinunciare) al petrolio di Putin. Tanto più se dopo i barili di greggio, il mirino verrà spostato sui suoi giacimenti di gas.

Di Dario Prestigiacomo. (Europa Today)

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