Tutti gli effetti della guerra in Ucraina per Usa, Cina, India, Israele e Turchia

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(Roma, 06 marzo 2022). Come ruota il mondo attorno all’Ucraina. Ruolo e aspettative di Usa, Cina, India, Israele e Turchia. Il punto di Gianmarco Volpe, global desk chief di Agenzia Nova

  • A Washington Joe Biden ha un problema: a novembre ci sono le elezioni di medio termine e quasi con ogni probabilità i democratici perderanno il controllo del Congresso. Sulla crisi ucraina la Casa Bianca finora ha avuto il merito di coordinare ogni mossa con gli europei (non era scontato, visti i precedenti) e questo ha contribuito a rendere l’Alleanza atlantica più coesa di quanto, forse, non sia mai stata. D’altra parte, certo, Biden non ha colto l’occasione per scrollarsi di dosso l’immagine di leader debole. In vista del voto di novembre, i repubblicani lo attaccheranno e cercheranno di forzare la mano del presidente perché adotti una posizione ancora più assertiva nei confronti della Russia. C’è un però. Il fronte repubblicano, anche in tema di guerra in Ucraina, è tutt’altro che compatto: la base trumpiana ha insopprimibili simpatie putiniane e marcate tendenze isolazioniste (seguite Tucker Carlson, host di Fox News, per delucidazioni); i leader conservatori del Congresso fanno invece la parte dei falchi (Lindsey Graham, che pure è grande amico e confondente di Trump, ha pacatamente suggerito ai russi di uccidere Putin). Biden deciderà probabilmente di adottare nuove sanzioni contro la Russia, cercando di mantenere su livelli accettabili il rischio di un’escalation. Ma non sarà lui ad assumersi l’onere di un’iniziativa diplomatica.
  • A Pechino Xi Jinping ha un dilemma. Anche lui ha un appuntamento importante in autunno, il ventesimo congresso del Partito comunista, in occasione del quale diventerà l’unico leader cinese al quale è stato affidato per tre mandati l’incarico di segretario generale. Difficilmente attaccherà Taiwan prima di quel momento. Invece di spingere la Cina all’azione, come molti osservatori suggerivano, il conflitto in Ucraina sta consigliando a Xi maggiore cautela. Il presidente cinese non avrà mancato di registrare la durissima risposta sanzionatoria occidentale contro Putin, forse tanto dura perché contiene un messaggio per Pechino. E nemmeno gli sarà sfuggita la resistenza degli ucraini sul terreno, la stessa che in un contesto tattico assai più complicato potrebbe essere incontrata dall’esercito invasore cinese a Taiwan. Per lo sbarco sull’isola, insomma, ci vorrà tempo e non si potranno ripetere gli errori logistici e di sottovalutazione del nemico commessi dai russi. È un tempo che Tsai Ing-wen userà per continuare ad armare Taiwan fino ai denti. A Taipei tutti sanno che i cinesi prima o poi arriveranno, e quando succederà non gli si potrà tirar contro caramelle.
  • A Nuova Delhi Narendra Modi è in una posizione assai scomoda. La rivalità e i problemi al confine con la Cina hanno spinto l’India, negli ultimi anni, sempre più vicina agli Stati Uniti. E però il Paese ha da sempre rapporti economici e militari privilegiati con la Russia: per questo non ha condannato esplicitamente l’invasione dell’Ucraina, non si è unito alla campagna sanzionatoria internazionale e si è astenuto in Assemblea generale Onu. Modi sta ricevendo pressioni forti da Biden perché assuma una posizione chiara e avrà certo notato come gli equilibri politici nella sua regione stiano rapidamente mutando (il collega del rivale Pakistan Imran Khan, grande amico della Cina, veniva ricevuto al Cremlino da Putin il giorno dell’invasione). Però, forse, vuol sfruttare la sua posizione così particolare (è l’unico importante partner degli Usa a mantenersi neutrale) per proporre una sua mediazione. Il premier indiano ha bisogno di un successo in politica estera per recuperare consenso dopo il disastro combinato col Covid-19, ma un suo intervento per ora è fantapolitica.
  • A Gerusalemme Naftali Bennett ha serie credenziali per mediare. Sabato è stato a Mosca, in precedenza ha parlato con Scholz. Israele ha dalla sua legami storici, religiosi e culturali con le comunità ebraiche di Russia e Ucraina. Con Mosca ha collaborato anche in situazioni complesse (tipo in Siria, dove i russi erano dalla stessa parte del movimento libanese Hezbollah che invece veniva bombardato dallo Stato ebraico) e vuole evitare che il conflitto si spinga fino a Odessa, dove vivono circa 30 mila ebrei (erano 200 mila prima della Seconda Guerra mondiale). Bennett è un leader della destra religiosa, queste sono faccende alle quali il suo elettorato attribuisce particolare attenzione. A sfavore del premier israeliano gioca però la tempistica: possibile che Putin sia già pronto per sedersi – sul serio – al tavolo dei negoziati? Se così fosse, significherebbe che la Russia ritiene la campagna ucraina una causa già persa. Temo sia presto.
  • Ad Ankara, capitolo a parte per la posizione di Recep Tayyip Erdogan, la più acrobatica di tutte. Erdogan parla con Putin, blocca le navi russe nel Bosforo, vende i droni agli ucraini ma (unico tra i leader Nato) non si unisce alle sanzioni contro la Russia. Un pastrocchio. Il presidente turco è un leader isolato e in estrema difficoltà, la lira turca è in caduta quasi quanto il rublo, l’inflazione galoppa e l’anno prossimo ci sono le elezioni. È ragionevole che, esaurita la spinta dell’azione militare in Siria, Erdogan voglia approfittare di un conflitto sull’altra sponda del Mar Nero per tornare protagonista. Ma la Turchia non è certo uno spettatore disinteressato, e il suo leader non ha la credibilità internazionale per tentare un’azione diplomatica significativa.

Di Gianmarco Volpe. (Start Magazine)