(Roma, 09 marzo 2021). Risultava atemporale l’immagine di uomini delle forze di sicurezza irachena che portavano sulla divisa la croce cristiana. Una splendida immagine, che in migliaia hanno condiviso parlando di nuova vita. Video del 2017 che venivano ripostati e che riprendevano i Peshmerga intenti a salire sopra i tetti delle chiese distrutte riportando in alto le croci abbattute. Oppure abbracci tra semplici esseri umani, che al di là del proprio credo si sono ritrovati insieme ad aver superato un periodo buio. Ma tutto questo si ripeterà a breve o bisognerà aspettate un altro lustro ? Spenti i riflettori, per gli iracheni ci sarà davvero una presa di coscienza e un inizio di cambiamento ?
La strada è ancora molto lunga e l’Iraq è ancora una terra vessata da lotte di potere in mano a fazioni estremiste. Estremismi che non accettano il cambiamento e che colpiscono indistintamente chiunque non sia d’accordo con loro. Il timore è che per coloro che restano, calato il sipario, potrebbe esserci il rischio di qualche ritorsione e solo per essersi esposti in questi giorni di “gioiosa dimenticanza”. La distruzione trovata a Mosul dal Pontefice, non è parte di un docufilm che racconta il passato, ma è parte di una realtà vivente, che ancora tarda a trovare la normalità e che abbraccia numerose città dell’Iraq, che hanno vissuto il loro orrore.
Nel Governatorato di Ninive, dove in questi giorni ha regnato una calma surreale e desiderata da tutti gli iracheni, a ricordare la presenza dell’IS, non solo le macerie nelle varie città, ma anche un luogo di cui pochi sono a conoscenza e che detiene il primato degli orrori creati dal Califfato. A pochi chilometri da dove il Papa ha parlato di fratellanza e convivenza c’è un luogo scoperto nella Regione semiautonoma del Kurdistan e che ha spinto le alte autorità irachene a chiedere, lo scorso novembre, un aiuto internazionale per la risoluzione del problema.
Alcuni lo descrivono come il “pozzo della morte”, testimone dei crimini più sanguinosi nel corso dei secoli e operato dall’IS. Il suo nome è fossa di al-Khasfa, dove, a detta dei locali e delle autorità, circa 10mila corpi sono stati buttati dentro, durante il controllo del Califfato sulla città di Mosul. Coprendo tutto il periodo in cui l’organizzazione ha comandato (dal 2014 al 2017). Un immenso cratere che i locali credono sia stato creato da un meteorite migliaia di anni fa, ma che a detta di uno studio effettuato dall’Università di Mosul, sarebbe una depressione naturale che attira continuamente al suo interno sabbia e corpi pesanti. Con un diametro di 40 metri e una profondità di circa 150 metri. Al-Khasfa è un grande buco nero in cui sono contenuti i corpi dei martiri uccisi dall’IS e si trova nel deserto vicino al villaggio di Al-Athba, 20 km a sud della città di Mosul.
Questa “fossa comune delle Marianne” piange ancora migliaia di uomini, donne e bambini il cui nome è ormai dimenticato, ma non per i parenti che aspettano ancora, un’impossibile riesumazione. A novembre infatti, un membro del comitato consultivo del gabinetto iracheno, Saad Al-Abdali, avrebbe affermato: “L’apertura della fossa di Al-Khasfa, nel governatorato di Ninive, richiede uno sforzo internazionale, poiché questo buco è il più grande e il più sanguinoso. Non conosciamo bene la sua profondità e l’esatto numero dei corpi scaricati”. Ha poi continuato: “I cadaveri sono stati lanciati verticalmente e cumulativamente, il che significa che i corpi rimangono e che le ossa si mescolano insieme, rendendo difficile identificare le vittime e restituirle alle loro famiglie”, senza contare i gas sprigionati ed i liquami che si troverebbero se si aprisse “il vaso di Pandora”. Chissà che dopo questa visita si cominci con il ridare dignità a questo popolo.
Sul numero dei resti all’interno di quella fossa, il sindaco di Mosul Al-Araji avrebbe detto: “I membri dell’IS hanno gettato 2700 cadaveri in una sola operazione – continuando – le famiglie degli scomparsi e dei dispersi chiedono di conoscere il destino dei loro cari”.
Ma il problema sta a monte, poiché la situazione dell’IS non è un file chiuso e come accennato dal Primo Ministro del Kurdistan Masrour Barzani, lì dove il Governo federale e il Kurdistan iracheno con i Peshmerga, hanno creato un vuoto di cooperazione, l’IS e le milizie filo iraniane hanno ripreso il controllo dei territori. Proprio lì, nelle zone dove si pensava fosse stata del tutto eliminata.
Dallo scorso anno ad oggi la situazione è peggiorata e lo Stato Islamico ha approfittato di questa pandemia per rifocillarsi tornando con nuove vesti e un nuovo assetto organizzativo. I resti dell’organizzazione che sembrava essere abbattuta, sta utilizzando la tecnica mordi e fuggi, che è stata ampiamente esplicitata nel 2018, anche negli ultimi attacchi in Libia. Questa nuova struttura che continua ad espandersi a macchia d’olio, attraverso la “polverizzazione” di nuove e vecchie cellule, rendono la loro localizzazione e cattura molto più complicata di prima, dove le roccaforti dell’ISIS erano più inquadrabili e analizzabili.
Il timore è che i foreign fighters che dovevano essere rimpatriati nelle loro città di origine, e che a causa della pandemia in atto sono stati bloccati nei campi di detenzione o nei campi profughi, come quello di Al-Hol in Siria, si stiano radicalizzando oltremodo e che al loro rientro in patria possano prendere parte a nuovi progetti di matrice terroristica, ricongiungendosi con ciò che resta del Califfato.
Secondo uno studio pubblicato dal Terrorism Research and Analysis Consortium (TRAC), i resti dell’organizzazione dell’IS in Iraq avrebbero rivendicato 100 attacchi in tutto il paese nel solo mese di agosto. Da agosto ad oggi altrettanti e più sanguinosi attacchi sono stati rivendicati, tra cui 2 attentati kamikaze a gennaio nel mercato di Baghdad, dove sono state uccise oltre 30 persone. Il tutto, dimostrando di essere ancora in grado di effettuare sanguinosi attacchi contro obiettivi civili e militari.
Senza contare le milizie legate alla Guardia rivoluzionaria iraniana e ad Hezbollah. Presenze ingombranti che iniziano a prendere sempre più possesso di spazi iracheni, minacciando la regione tutta e soprattutto la “relativa tranquillità” del Kurdistan. Presenze che attraverso i gruppi armati mirano a destabilizzare la sicurezza dell’Iraq. Poiché a detta di forze di sicurezza locali, la stabilità dell’Iraq è considerata una minaccia per l’Iran, che ha un interesse strategico nel mantenere l’anarchia irachena.
Davanti ad una realtà così aspra e cruda, ci si augura che le autorità statali, religiose e civili mantengano il punto sulle promesse effettuate in questi giorni al popolo. Ma l’auspicio più grande va verso il popolo iracheno, quello che aspira al cambiamento, che manifesta per le strade contro la corruzione e per la propria autodeterminazione, che spera nel silenzio delle proprie case per il timore di ritorsioni. L’augurio è che sia capace di mantenere il passo su una marcia ancora lunga e dissipata di ostacoli. Una zavorrata pesante e in salita, ma per la quale dovrà e potrà esserci una fine.
Giusy Criscuolo. (Report Difesa)