Il Sultano e l’Europa: la guerra nascosta nel Mediterraneo

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(Roma 26 novembre 2020). L’ispezione di una nave turca da parte di una fregata tedesca non soltanto ha provocato l’ira di Ankara, ma pone di nuovo l’accento su quella guerra, costante e silenziosa, che si svolge nel Mediterraneo e che vede come protagonisti la Turchia e gli altri Paesi europei. Un conflitto estremamente delicato, che da una parte infiamma tutta l’area rientrante nel cosiddetto Mediterraneo allargato, e dall’altra parte costringe (o dovrebbe costringere) l’Europa e la Nato a dare finalmente una risposta a un quesito che da tempo riecheggia tra le cancellerie del Vecchio Continente: cosa è la Turchia per i suoi partner occidentali. Risposta per ora estremamente difficile da dare, ma che diventa ogni giorno più dirimente alla luce di quanto sta avvenendo in questi anni in quello che fu Mare Nostrum e che oggi è sempre territorio di caccia e di giochi bellici e geopolitici.

Una guerra non dichiarata

I fronti di guerra in questo momento sono almeno due: Mediterraneo orientale e centrale. E non è semplicemente una guerra di retorica. L’uso della forza è divenuto sempre più un cardine della politica estera di tutti i Paesi che si affacciano su questo mare, con le diverse marine che si confrontano in maniera costante in quello è un vero e proprio teatro acquatico di confronto tra superpotenze e potenze di livello regionale.

Tra queste, la Turchia è probabilmente quella più importante perché coinvolta in entrambi i fronti e artefice dell’innesco delle escalation: segnale tangibile di un rinnovato desiderio turco di espandere la propria influenza anche, ma non solo, attraverso il Mediterraneo. Una crescita che non piace a molti Paesi dell’Ue e che è vista con occhi inquieti anche da altre forze del mondo mediorientale e in particolare arabo, che temono il dinamismo turco paventando una rinascita di quello che fu l’Impero ottomano. Impero di cui tutti erano parte (e sudditi) dalla Libia fino all’Iraq, dal Mar Rosso ai Balcani. La ripresa dell’attività turca, dicevamo, si attua attualmente su due grandi scacchieri marittimi. Così come la guerra (presente anche se ancora “fredda”) che la vede coinvolta.

Il fronte del Mediterraneo centrale

Il primo di questi – e lo dimostra anche l’ultima attività della marina tedesca nell’ambito di Irini – è la Libia. La rotta che dalla Turchia va verso la Tripolitania è particolarmente importante sia sui mari che nei cieli, e la costanza dei voli verso Misurata non è inferiore a quella delle imbarcazioni battenti anche (ma non solo) bandiera turca che si avvicinano al grande porto libico così come alla capitale del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. L’operazione Irini, che è regolata dalle risoluzioni Onu, ha come obiettivo quello di garantire il rispetto dell’embargo sulla vendita di armi e altri materiali bellici verso la Libia. Ma secondo il governo di Erdogan, l’operazione che ha sostituito Sophia ha un peccato originale: e cioè quello di essere orientata non verso il rispetto dell’embargo nei confronti di tutte le forze libiche, ma solo verso il flusso di uomini e mezzi provenienti dalla Turchia e diretti in Tripolitania.

Il sospetto turco, a onor del vero, è confermato anche dal fatto che l’impegno di Irini si concentra esclusivamente sul fronte marittimo. È chiaro quindi che se per la Turchia è scontato il foraggiamento di Tripoli via mare, per motivi eminentemente geografici, l’embargo sulle armi può essere tranquillamente evitato dalle altre potenze coinvolte semplicemente sfruttando il fronte orientale e meridionale. Tanto è vero che molti temono che un inserimento turco in Sahel serva anche come leva per costruirsi un’alternativa alle rotte aeree e marittime verso Misurata. Quello che è certo, in ogni caso, è che le potenze che sostengono Khalifa Haftar hanno modo di aggirare l’embargo via terra, così come – in base alle risoluzioni Onu – lo Stato che invia una nave può tranquillamente rifiutare l’ispezione a bordo da parte delle forze internazionali. Il che però equivarrebbe a un’ammissione di colpevolezza.

Al netto delle criticità di Irini, va però sottolineato che il confronto nel Mediterraneo centrale tra Turchia e avversari è ormai sotto gli occhi di tutti. La Marina francese, in particolare con la fregata Courbet, ha già avuto un incontro ravvicinato con le navi turche. Mentre la Marina greca, con la fregata Spetsai, è stata costretta ad allontanarsi da un battello turco dopo che una nave della Marina di Erdogan si è avvicinata con fare minaccioso. Momenti di tensione che dimostrano come il conflitto sia ormai una costante delle acque davanti alla Libia.

Il settore orientale

Se la Libia è il fronte attualmente più caldo, non va dimenticato che un altro settore del Mediterraneo è stato (ed è ancora) al centro del confronto tra Turchia ed Europa, ovvero quello orientale. Sfogo naturale della Repubblica turca, che si sente rinchiusa nel suo guscio anatolico dopo Losanna, l’Egeo e il tratto di mare che arriva fino a Cipro sono essenziali nella logica della rinascita turca voluta da Erodgan. E se per il Sultano l’intervento in zone lontane dai suoi confini rappresenta un modo per assumere influenza nello scenario internazionale, la conquista di spazi marittimi, risorse e l’imposizione di compromessi sulla suddivisione delle Zee sono elementi da considerarsi quasi di sopravvivenza nella narrazione del suo mandato.

Chiaramente, per realizzare l’obiettivo che Ankara si è predisposta da decenni (cioè il superamento del trattato di Losanna), Erdogan ha bisogno di prove di forza. In questo contesto, le navi da ricerca di idrocarburi inviate a largo di Cipro, Creta e Castelrosso altro non sono che manifestazioni concrete di quale sia lo scopo della politica del governo turco sui mari. Ma queste imbarcazioni non sono da sole: navi della marina turca hanno più volte scortato questi mezzi nelle acque sotto il controllo di Atene e Nicosia, diventando avamposti militari della politica estera di Ankara. Una scelta che ha scatenato non solo l’ira della Grecia e di Cipro, ma anche un confronto militare che, come per la Libia ma con toni anche più accesi, ha visto entrare in scena direttamente le forze navali dei Paesi coinvolti. A volte anche con episodi al limite dello scontro armato, se si pensa che si è arrivato anche allo speronamento tra una nave greca e una turca al largo dell’Egeo.

Ma quello che conta è che anche qui come davanti Tripoli, il braccio di ferro tra la Turchia e i Paesi europei (e non solo) si è trasformato in una situazione in cui l’uso della forza è ormai completamente sdoganato, almeno per quanto concerne l’utilizzo della naval suasion e della dissuasione per mezzo di forze armate. La Turchia invia navi e sottomarini a scortare le proprie imbarcazioni di ricerca, la Grecia invia la flotta a tutela dei propri mari ingaggiando vere e proprie battaglie navali mentre i caccia sfidano le Vipere turche. E nel frattempo, gran parte delle potenze coinvolte nell’area ha inviato navi e mezzi aerei per esercitazioni con Atene ma anche per avvertire la Turchia di evitare mosse avventate. Scelte che di certo non possono essere inserite nel contesto di un rapporto tra alleati.

Ultimatum e diplomazia

Se “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, è altrettanto evidente che l’uso delle navi come forze di dissuasione, l’embargo, speronamenti, minacce e esercitazioni rappresentano atti molto vicini a una guerra. O comunque rappresentano una forma di guerra diversa, non aperta ma nemmeno così segreta o messa a tacere. E il fatto che siano sempre gli stessi soggetti coinvolti dimostra un’unità di intenti che è molto simile a un vero e proprio conflitto in cui la Turchia fronteggia un blocco più o meno omogeneo di Stati europei (Francia, Grecia e Cipro) e mediorientali (in primis l’Egitto e le petromonarchie). Tutto questo mentre gli Stati Uniti, con il cambio di amministrazione, potrebbero mettere un freno a Erdogan, mentre la Russia valuta una posizione intermedia e la Cina spinge verso il Mediterraneo.

La diplomazia nel frattempo corre mentre le armi faticano a tacere. E il fatto che sia stata la marina tedesca a ispezionare il cargo turco davanti alla Libia potrebbe essere un segnale indicativo dei movimenti anche tra le diverse cancellerie europee. Berlino, a differenza di Parigi, non vuole rompere le relazioni con Ankara. I rapporti tra Germania e Turchia sono solidi sia a livello economico che strategico. E Angela Merkel, erede della tradizione diplomatica tedesca, sa che con la Sublime Porta si tratta. E sa che si vuole mantenere in piedi la partita libica (conferenza di Berlino docet) e continuare a mediare tra le due sponde dell’Egeo e i Balcani deve dialogare con Erdogan. Cosa che Emmanuel Macron può anche decidere di non fare.

L’impressione è che tutto possa decidersi tra pochi giorni con il vertice europeo sulle possibili sanzioni alla Turchia. I funzionari Ue hanno parlato chiaro: se Ankara non cessa le provocazioni sarà impossibile evitare il regime sanzionatorio che farebbe collassare l’economia anatolica. Una extrema ratio che Berlino vorrebbe evitare a ogni costo, ma dipenderà anche molto da quale partito avrò il sopravvento, se quello filo-francese  quello filo-tedesco. Intanto le flotte si muovono. E il Mediterraneo è protagonista di una guerra fredda che nessuno ha il coraggio di chiamare con il suo vero nome.

Lorenzo Vita. (Inside Over)