(Roma, 12 dicembre 2025). La scoperta di un gigantesco giacimento d’oro nella miniera di Shadan non è solo una notizia economica: è un segnale politico. L’Iran, schiacciato da anni di sanzioni, cerca nuove vie per ridurre la dipendenza dal dollaro e per rafforzare una resilienza economica sempre più fragile. L’annuncio arriva in un momento in cui Teheran, isolata sul piano finanziario, moltiplica gli acquisti d’oro sul mercato internazionale e tenta di trasformare il settore minerario in un pilastro alternativo alle esportazioni di petrolio, soffocate dal regime di blocco imposto dagli Stati Uniti.
Le cifre diffuse dalle agenzie iraniane sono imponenti: più di 61 milioni di tonnellate di minerale contenente oro, tra ossidi e solfuri. Una quantità che fa effetto, ma che va interpretata. Si tratta infatti di minerale grezzo, ben lontano dall’essere oro pronto per la fusione o per la vendita. Senza conoscere la concentrazione in grammi per tonnellata, non è possibile stimare quanto metallo prezioso sia effettivamente recuperabile. E non è un dettaglio: la differenza tra un filone ricco e uno povero può trasformare una scoperta epocale in una promessa marginale.
Il dato politico, però, è altrove. L’Iran vuole dimostrare di avere risorse interne sufficienti a sostenere lo sforzo economico imposto dalle sanzioni. In un Paese dove l’iperinflazione erode quotidianamente il potere d’acquisto e dove il rial continua a crollare — un dollaro sfiora 1,17 milioni di rials sul mercato nero — l’oro diventa rifugio, garanzia psicologica e strumento di auto-difesa finanziaria. Non stupisce che la Banca Centrale iraniana risulti tra le prime al mondo per acquisti negli ultimi anni, anche se le autorità evitano di fornire cifre precise sulle riserve: un’opacità che fa parte della strategia di sopravvivenza.
L’importanza dell’oro va letta dentro un quadro più ampio. L’Iran mira a integrare il settore minerario nella sua geopolitica delle sanzioni, trasformando miniere e fonderie in valvole di sfogo per generare valuta forte in modo più difficile da tracciare e colpire rispetto al petrolio. La miniera di Zarshouran, la più grande del Paese, è già un tassello di questa strategia, e Shadan potrebbe diventarlo, se i numeri saranno confermati e se gli investimenti necessari verranno realizzati. Ma qui emerge un limite strutturale: l’Iran ha bisogno di tecnologia, macchinari, capitali, e tutti questi settori sono pesantemente toccati dalle sanzioni.
In questo senso, l’entusiasmo di Teheran rischia di scontrarsi con la realtà. Estrarre oro dai solfuri è un processo complesso, costoso e spesso inquinante. Senza accesso a impianti moderni e reagenti avanzati, i tempi e i costi lievitano, riducendo la redditività del giacimento. E c’è poi la concorrenza internazionale: Russia e Cina, partner politici di Teheran, potrebbero approfittare della situazione per ottenere condizioni di favore, inserendosi nella filiera mineraria iraniana in cambio di sostegno economico o diplomatico.
Intanto, sul piano interno, l’oro ha assunto una funzione sociale oltre che economica. Con l’aumento dei prezzi al consumo e il crollo del rial, molte famiglie investono quello che possono in monete e lingotti, cercando un’àncora di stabilità. I record di prezzo non scoraggiano gli acquisti, perché la paura di perdere tutto pesa più del costo iniziale. L’annuncio della scoperta di Shadan, in questo contesto, serve anche a trasmettere un messaggio di fiducia interna, un modo per dire alla popolazione che lo Stato controlla almeno una parte del futuro economico.
La verità, però, è che nessun giacimento d’oro può da solo invertire le dinamiche di un sistema economico soffocato da anni di isolamento, corruzione, inefficienza e fuga di cervelli. L’Iran può accumulare lingotti nelle casse della Banca Centrale, può far brillare titoli trionfali nelle agenzie, ma finché il nodo delle sanzioni non verrà affrontato sul terreno diplomatico, il metallo prezioso rimarrà una stampella, non una soluzione strutturale.
Shadan è dunque un simbolo: della ricchezza possibile, della difficoltà reale e della necessità, per Teheran, di reinventare la propria economia in un mondo che continua a circondarla. Un mondo in cui l’oro non è solo un bene minerario, ma un’arma finanziaria in una guerra economica che si combatte lontano dai fronti tradizionali.
Di Giuseppe Gagliano. (Inside Over)