(Roma, 13 febbraio 2024). Aluf Benn è il capo-redattore del quotidiano israeliano Haaretz, nonché figlio di un noto poeta e nipote di un soldato israeliano caduto proprio a Gaza nel 1955, dal quale ha preso il nome. Benn ha scritto per la rivista americana Foreign Affairs un articolo intitolato “L’autodistruzione di Israele” che tutti dovremmo leggere in questo periodo di contrapposizioni radicali e assurde. Soprattutto, mentre l’unico interesse sembra stare nello stabilire più o meno abusivamente di chi sia la colpa e non quale sia il destino di tutti, a cominciare da quello di Israele.
L’articolo di Benn prende le mosse da un episodio poco noto fuori da Israele, comunque poco ricordato: l’assassinio nel 1956 di un giovanissimo israeliano, il ventunenne Roi Rotberg, da parte di un gruppo di palestinesi. Fu Moshe Dayan a tenere la commemorazione funebre, durante la quale disse: “Non diamo la colpa agli assassini. Per otto anni sono rimasti nei campi profughi di Gaza e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi in cui vivevano loro e i loro padri in nostre proprietà”. Dayan non era un tenero pacifista, ricorda Benn. Era invece l’uomo che nel 1950, quando le ostilità erano finite e Israele era uno Stato già riconosciuto da molti Paesi, aveva organizzato l’espulsione della comunità palestinese dalla città di Al-Majdal, oggi la città israeliana di Ashkelon. La stessa città da cui furono allora espulsi i familiari di Yahia Sinwar, il capo di Hamas che ha organizzato e diretto il massacro del 7 ottobre. Quella che Benn definisce “la peggiore calamità nella storia di Israele”.
Benn parte dalla storia e arriva alla cronaca di questi giorni per fare una considerazione: Israele non sarà mai al sicuro senza trovare un modus vivendi con i palestinesi. E la ricerca di questo modus vivendi è proprio ciò contro cui ha lottato per tutta la sua carriera politica l’attuale premier Benjamin “Bibi” Netanyahu che, come tutti sanno, è da tempo l’uomo che più a lungo ha occupato la carica di primo ministro nella storia del Paese. Netanyahu che, scrive Benn, “ha dedicato tutti i suoi mandati a indebolire ed emarginare il movimento nazionale palestinese. Ha promesso al suo popolo che potrà prosperare senza pace. Ha venduto il Paese con l’idea che possa continuare ad occupare le terre palestinesi per sempre con costi bassi, sia interni che internazionali. E anche adesso, all’indomani del 7 ottobre, non ha cambiato il suo messaggio”.
Nei suoi lunghi anni di potere, spiega Benn, Netanyahu ha raccontato agli israeliani che era possibile costruire un angolo di Occidente in Medio Oriente, e persino trovare un accordo con i Paesi arabi, semplicemente mettendo da parte i palestinesi, applicando la strategia del “divide et impera” per cercare di sterilizzare il problema. E lo stesso racconto ha proposto all’estero: indimenticabili gli scontri il presidente Usa Barack Obama, quando questi riproponeva la strategia dei “due popoli due Stati”. Una strategia miope e perdente, incapace di riconoscere che i palestinesi non rinunceranno mai alla terra che fu loro, che a sua volta è centrale per la loro identità nazionale.
In nome di questa strategia, Netanyahu ha provato anche a cambiare la società israeliana, spostando i suoi equilibri sempre più verso destra. Il risultato è stato una forte instabilità (cinque elezioni politiche in tre anni e mezzo), la radicalizzazione del dibattito politico, una divisione interna e culminata nelle grandi proteste di piazza contro la “riforma” del sistema giudiziario, infine respinta dalla Corte suprema. Soprattutto, Netanyahu è riuscito a espellere dal confronto pubblico il tema della pace con i palestinesi, che per decenni era rimasto centrale nella vita di Israele.
La conclusione di Benn è amara ma non priva di speranza: “In definitiva, quindi, il futuro di Israele potrebbe somigliare molto alla sua storia recente. Con o senza Netanyahu, la “gestione dei conflitti” e il “falciare l’erba” rimarranno politiche statali, il che significa più occupazione, insediamenti ed espulsioni. Questa strategia potrebbe sembrare l’opzione meno rischiosa, almeno per un pubblico israeliano segnato dagli orrori del 7 ottobre e sordo a nuove suggestioni di pace. Ma porterà solo a ulteriori catastrofi. Gli israeliani non possono aspettarsi stabilità se continuano a ignorare i palestinesi e a rifiutare le loro aspirazioni, la loro storia e perfino la loro presenza. Questa è la lezione che il Paese avrebbe dovuto imparare dall’avvertimento di Dayan. Israele deve tendere la mano ai palestinesi se vuole una convivenza vivibile e rispettosa”.
Di Fulvio Scaglione. (Inside Over)