(Roma, Parigi, 29 ottobre 2022). Nei primi giorni di ottobre, il capo della Missione Onu nella Repubblica Democratica del Congo, ha annunciato, senza giri di parole, che i caschi blu sono pronti a lasciare il Paese africano. “Siamo pronti e disposti a ritirarci”. Sono state queste le parole della rappresentante delle Nazioni Unite in Congo Bintou Keita. Dichiarazioni passate in sordina a livello internazionale ma di estrema importanza per quel che concerne il futuro della nazione della regione dei Grandi Laghi e gli equilibri geopolitici nell’Africa centro equatoriale.
L’ennesima ribellione
L’annuncio è arrivato a seguito dell’ultima escalation militare che si è registrata a giugno nelle province orientali del Congo, quando il gruppo ribelle degli M23 ha preso controllo di svariate città e distretti nell’est dell’ex colonia belga. E, stando a quanto dichiarato da Keita, sarebbe stata quest’ennesima ribellione ad avere generato una “crisi di fiducia” della popolazione nei confronti della missione dei caschi blu, ragione alla base del ritiro del contingente di pace che dovrebbe avvenire entro il 2024.
In realtà è da anni che la popolazione del Nord Kivu, del Sud Kivu e dell’Ituri osteggia l’operato dei peacekeepers poiché l’est del Paese, nonostante la presenza decennale delle forze di pace, rimane una delle zone più instabili del pianeta e da oltre mezzo secolo si susseguono guerre e ribellioni. Oggi si conta la presenza di oltre 120 gruppi armati e sono più di 5 milioni gli sfollati interni.
La guerra di giugno sembra però aver messo a nudo i limiti del contingente internazionale e lo stesso segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha parlato di un’impossibilità da parte della MONUSCO di arrestare la ribellione. In un’intervista rilasciata a settembre a France 24 e a RFI, Guterres ha infatti dichiarato: “le Nazioni Unite non sono in grado di sconfiggere l’M23. La verità è che l’M23 oggi è un esercito moderno, con un equipaggiamento militare più avanzato di quello della MONUSCO”.
Cosa succede con il ritiro ONU
La missione in Congo delle Nazioni Unite, che conta circa 12.500 uomini e che costa, indicativamente, un miliardo di dollari l’anno, sarebbe ormai giunta così, dopo 23 anni, al capolinea e, secondo quanto dichiarato da diversi analisti, la volontà dell’ONU sarebbe quella di passare il testimone ad attori regionali come il Kenya e l’Angola, Paesi però che da poco hanno affrontato le elezioni presidenziali e che al momento sono maggiormente impegnati in questioni di politica interna.
Il ritiro delle truppe ONU, la presenza di una formazione ribelle, gli M23, che controlla tutt’ora alcune porzioni di territorio congolese, la disattenzione internazionale a causa della crisi energetica globale e della guerra in Ucraina, l’assenza di una forza di interposizione africana solida e con un peso specifico politico considerevole; sono tutti fattori di un’equazione che fa temere che il risultato finale possa essere il divampare di un nuovo conflitto di vasta portata nel Paese africano.
Ma per comprendere come si sia arrivati a questo punto e quali potrebbero essere le soluzioni per scongiurare una crisi umanitaria drammatica, occorre analizzare più nel dettaglio gli eventi degli ultimi mesi.
L’escalation del 2021
A maggio 2021, l’esecutivo di Felix Tshisekedi, per far fronte alla ribellione degli islamisti dell’ADF nel Nord Kivu e nell’Ituri ha dapprima introdotto l’état de siege, un provvedimento con il quale ha conferito pieni poteri all’esercito e poi ha autorizzato l’ingresso delle truppe ugandesi in Congo per sostenere i soldati di Kinshasa nella lotta contro gli jihadisti. Una manovra che non è piaciuta al Ruanda di Paul Kagame che dagli anni ’90 vive una situazione di enorme tensione con la Repubblica Democratica del Congo, spesso degenerata in guerre per procura attraverso formazioni irregolari addestrate a Kigali, e che ha percepito l’ingresso delle forze di Kampala in Congo come una provocazione atta a mettere in secondo piano il ruolo del Ruanda nella regione.
La tensione tra Kinshasa e Kigali si è acuita però ulteriormente dopo che, a fine marzo, il Congo-K è entrato a far parte dell’EAC (East Africam Community) di cui fanno parte anche Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Burundi e Ruanda e, dopo esser divenuto membro dell’associazione economica dell’Africa centrale, il governo congolese, ad aprile, ha richiesto anche il dispiegamento di un contingente internazionale sul proprio territorio, per pacificare le zone orientali, composto dalle forze degli stati membri dell’EAC ad eccezione però delle truppe ruandesi.
Una situazione diplomatica che è andata a inasprirsi sempre di più quella tra i due vicini e che è degenerata a giugno con la nuova ribellione degli M23.
La guerriglia degli M23
Il gruppo, composto principalmente da soldati di etnia tutsi, nel 2012, diede origine all’ultima grande guerra nel Nord Kivu. La formazione irregolare, erede del CNDP di Laurent Nkunda, e che rivendicava maggiori diritti per i soldati e la popolazione tutsi, avanzò per mesi nelle regioni orientali, prese controllo della frontiera con il Ruanda e arrivò a occupare la città di Goma. L’insurrezione venne sconfitta nel 2013 e il leader del gruppo Sultani Makenga ripiegò in Ruanda insieme ai suoi fedelissimi. Dopo nove anni le forze irregolari si sono ricompattate e, meglio armate e addestrate, hanno di nuovo dato vita a una guerriglia nell’est del Paese.
Al momento l’M23 detiene il controllo della città frontaliera di Bunagana e di altre zone di confine e sono oltre 160mila i civili costretti alla fuga. Sin dalle prime fasi del conflitto il governo di Kinshasa ha accusato Kigali di supportare la ribellione. Attacchi respinti da Kagame che però ha replicato sostenendo che Kinshasa finanzia gli FDLR, un gruppo hutu composto da ex membri dell’Interahamwe, la milizia hutu macchiatasi di stragi ed esecuzioni sommarie durante il genocidio ruandese del 1994.
I leader di Stato non si sono risparmiati accuse reciproche neppure dal palco dell’Assemblea delle Nazioni Unite e chi si è mosso per cercare di trovare una mediazione è stato l’Eliseo che, attraverso il Presidente Macron e il lavoro della DGSE (servizi segreti francesi ndr.), ha riattivato i colloqui tra i due capi di stato africani. Dopo l’intervento di Macron, Kagame e Tshisekedi si sono dichiarati pronti a collaborare per far cessare la ribellione degli M23 anche se al momento dubbi e incognite permangono.
Il ruolo diplomatico di Parigi
Parigi, con il suo intervento inaspettato, ha dimostrato di voler ritornare ad essere protagonista in una zona dove, negli ultimi tempi, altre potenze internazionali hanno assunto un ruolo sempre più preponderante. La Francia però ha dichiarato che non vuole intervenire direttamente ma che collaborerà per l’istituzione della forza di pace africana.
In questo momento il destino del Congo sembra essere riposto nella formazione del contingente di interposizione africano però questa soluzione, ad oggi, per come sta sviluppandosi il conflitto e per le mancanze di mezzi cui devono far fronte i Paesi africani interessati, non legittima slanci di ottimismo per quel che concerne il futuro prossimo del Paese africano.
I rischi di una nuova guerra
La forza multinazionale dovrebbe comprendere dai 6’500 ai 12’000 uomini e il suo obiettivo, come recita lo statuto, sarebbe quello di “contenere, sconfiggere e sradicare le forze negative”. I dubbi però sono numerosi: innanzitutto l’EAC non ha mai dato vita a un dispiegamento di questo tipo e non ha neppure messo in atto politiche per la salvaguardia dei civili. La presenza di così numerose forze straniere, appartenenti a Paesi che hanno avuto nel passato recente scontri e rapporti conflittuali con il Congo, fa temere che possa avvenire una balcanizzazione della nazione africana oltre a un aggravarsi del saccheggio del sottosuolo. Un florilegio di forze armate di questo tipo vedrebbe un consequenziale aumento del numero di Paesi stranieri presenti nell’est del Congo e che potrebbero, in modo più o meno occulto, adoperarsi per mettere mano sulle miniere congolesi. Inoltre già oggi si sono presentate delle criticità poiché non tutti gli stati, in primis il Kenya, hanno i mezzi per inviare uomini, armamenti e sostenere un’operazione che nessuno prevede possa essere di breve durata.
La fine della missione dei Caschi blu, il dispiegamento di una forza africana ondivaga, le elezioni presidenziali in Congo l’anno prossimo e in Ruanda nel 2024, la situazione politica dell’intero continente estremamente precaria come dimostrano i colpi di stato che stanno destabilizzando l’Africa, la necessità sempre maggiore di risorse a livello globale e il consequenziale aumento degli appetiti internazionali per il forziere africano, la presenza di una ribellione ben organizzata sul piano militare e che controlla una delle frontiere del Paese; sono tutti aspetti che mostrano la massima tensione che regna nell’ex Congo belga.
Era dalla seconda guerra del Congo che non si registrava una situazione così incerta e con così tanti attori coinvolti. La nazione ora è in bilico. Il rischio di un incidente e un acuirsi della crisi sono preoccupazioni concrete e plausibili e le conseguenze per la Repubblica democratica del Congo, qualora divenisse teatro di un conflitto su ampia scala, sarebbero terribili. Chi deve impegnarsi affinché venga restaurata la pace sono gli attori internazionali: Stati Uniti, Cina, Unione Europea e gli stati membri dell’EAC. Solo un enorme impegno da parte dei Paesi limitrofi e dei principali partner commerciali a livello globale nel sostenere il Congo nel processo di pacificazione con le milizie, nello sviluppo delle infrastrutture e nella lotta all’estrazione illegale dei minerali, può scongiurare una nuova guerra mondiale africana.
Se così non sarà, il domani del Congo, ancora una volta, apparirà come la cronaca di una tragedia annunciata e drammaticamente ignorata.
Di Daniele Bellocchio. (Il Giornale/Inside Over)