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La fine della neutralità

(Roma, 27 luglio 2022). La guerra in Ucraina ha posto il problema di come mantenere la neutralità di fronte a un’aggressione. La questione non è banale: perché in un’epoca in cui l’informazione è così capillare, globalizzata e che esclude la possibilità di non essere al corrente di quanto accade anche a molti chilometri dal nostro territorio, non esiste opinione pubblica o governo che possa rimanere del tutto estraneo a un conflitto. Tanto più se questo si combatte alle porte dell’Europa e tra due entità statali ben definite di cui una, la Russia, è considerata una superpotenza.

Quando i ruoli sono così netti e i fatti così conclamati, essere neutrali è una scelta complessa e non priva di effetti negativi. La pressione mediatica e politica è estrema, dal momento che il mondo si è ormai caratterizzato verso una netta polarizzazione. Inoltre, si corre un doppio rischio: che la neutralità si trasformi in un pacifismo ideologico senza sbocchi; oppure, ulteriore rischio, che passi il messaggio che si è impassibili ed equidistanti nel momento in cui un Paese viene invaso.

Questo pericolo vale soprattutto per l’Occidente. Perché è tra Europa e Nord America che si è incardinato questo dibattito. I governi dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea hanno scelto, seppure in modo differente, di sostenere apertamente l’Ucraina e di condannare la Russia. E in generale la guerra scatenata da Cremlino ha inevitabilmente cambiato i parametri di riferimento sull’approccio alle dinamiche europee: tra chi ha cercato subito la protezione della Nato e chi invece ha ritrattato sulla tradizionale neutralità, oggi nemmeno la Svizzera si può dire estranea a questa nuova spinta atlantica. L’esempio di Finlandia e Svezia è quello più chiaro, ma di base nessuno, facendo parte di Ue o Nato, può dirsi davvero fuori dai giochi. L’unica eccezione europea, territoriale ma non politica, è data dalla Santa Sede, che soprattutto con Papa Francesco ha cercato di lavorare da subito a una mediazione.

Diverso, invece, il caso di altri continenti che sono spesso lasciati in disparte nella lettura eurocentrica del conflitto. Africa, America Latina e Asia sono apparse decisamente meno interessate a essere coinvolte nella guerra e nel dibattito internazionale su come fermare il conflitto e condannare la scelta di Vladimir Putin.

L’Africa, come dimostrato dai voti in sede Onu, non si è mai schierata apertamente con Kiev, sostenendo anzi una forma di ambiguità nei confronti della guerra dovuta sia agli accordi con Mosca sul piano militare ed energetico, sia per gli accordi sui beni alimentari. Il Sud America, cortile di casa di Washington, ha optato per una posizione molto meno netta del previsto sul tema bellico, e questo nonostante la presenza di alleati Usa tra i governi latini. Il caso del presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, è esemplare: prima del conflitto si è recato a Mosca proprio per incontrare Putin. Ma anche Argentina e Messico hanno condannato l’invasione senza però mostrarsi allineati al programma Usa.

L’attenzione si è rivolta principalmente (e inevitabilmente) sull’Asia. Le ex repubbliche sovietiche hanno seguito la linea del Cremlino. Gli appartenenti all’alleanza Quad hanno blindato i rapporti con gli Usa, condannando Mosca. L’Iran si è schierato pubblicamente con la Russia nel condannare le sanzioni occidentali. Ma le luci dei riflettori sono state puntate da subito sulla Cina e sull’India. La prima – partner che per molti rappresenterebbe il vero finanziatore occulto della guerra di Mosca – ha scelto la via dell’ambiguità.

I contratti sulle forniture energetiche, su altre materie prime e sul grano, unite agli interessi finanziari e strategici di Pechino, hanno fatto sì che quest’ultima abbia avuto un atteggiamento neutrale nei confronti del Cremlino. E le tensioni con gli Stati Uniti sono state spesso direttamente proporzionali all’idea cinese sulla guerra. Discorso simile può essere fatto, pur con dei dovuti distinguo, anche per l’altro gigante del continente, l’India, che oltre a essere da tempo incardinata in un neutralismo silente, ha anche costruito nel tempo un solido rapporto con la Russia in diversi settori strategici.

Di fronte a questa divisione in blocchi, la neutralità appare pertanto un tema di dibattito puramente occidentale, e non internazionale. Il sistema euro-atlantico, in quanto direttamente coinvolto, non ammette di fatto neutralismi ma solo letture più o meno intransigenti sul tema della guerra (vedi la diversità di azione tra Turchia, Polonia, Regno Unito o Germania). E chi era tradizionalmente neutrale ha dovuto fare i conti con una vera rivoluzione geopolitica portata dalla guerra di Putin.

Ma c’è una parte anche consistente del pianeta che non si è voluta schierare apertamente con l’Ucraina senza nemmeno farlo con la Russia, perorando la volontà di giungere il prima possibile a un accordo o addirittura rimanendo estranei alla materia del contendere. Una scelta dettata da diverse esigenze che però sembrano evidenziare l’importanza della distanza fisica e culturale rispetto alla guerra che si sta combattendo. In Europa, l’urgenza del conflitto e il dover prendere una posizione netta anche per l’appartenenza all’ombrello Nato, ha addirittura smorzato gli interessi strategici dei singoli Paesi in un’ottica sistemica. Negli altri continenti, la neutralità ancora è viva ma rischia di essere spesso scambiata con una forma di disinteresse.

Di Andrea Muratore, Emanuel Pietrobon, Lorenzo Vita, Paolo Mauri, Roberto Vivaldelli. (Inside Over)

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