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Putin di fronte all’incubo afghano. Perché Londra agita quel fantasma

(Roma, 29 maggio 2022). Il fantasma di Kabul torna negli incubo di Mosca ma anche nei “sogni” di Londra. Dai tempi del Grande Gioco, quando l’impero britannico e quello russo si fronteggiano nell’Asia centrale, l’Afghanistan ha sempre avuto un’importanza fondamentale negli equilibri e nelle grandi svolte geopolitiche dei due (ex) imperi. E se quel Paese ha rappresentato negli ultimi venti anni un inferno in cui sono state coinvolte anche le forze britanniche, ancora prima era stata l’Unione Sovietica a rimanere intrappolate nelle gole asiatiche fino a segnare l’inizio del suo inesorabile tracollo.

Da quella disastrosa guerra afghana, l’Unione Sovietica e poi la Russia non si sono mai riprese. L’incubo di tornare a combattere una guerra logorante, dispendiosa, in un Paese ostile e incomprensibile, è stata la linea rossa di Vladimir Putin da quando ha iniziato la sua lunga stagione di potere. Ma quello che ha preoccupato in modo particolare il Cremlino è stato soprattutto il pericolo di rimanere invischiato in una guerra per procura da cui non sarebbe più stato possibile uscire senza rischiare di perdere la faccia. Quando l’Urss decise di entrare in Afghanistan, era preventivabile che i mujaheddin avrebbero resistito in modo così feroce e capillare, anche se forse Mosca non si aspettava un tale livello di difesa. Ma quello che forse ben pochi in Russia avevano preventivato era il fiume di armi che sarebbe arrivato dall’Occidente per far sì che gli afghani non si arrendessero. Quelle armi sono arrivate, gli Stinger, i famigerati missili terra-aria spalleggiabili, sono diventati un vero e proprio simbolo della resistenza dei guerriglieri degli altipiani afghani. E da lì è iniziata la ritirata dell’Urss e la fine del sogno di gloria di mettere definitivamente piede nella “tomba degli imperi”.

L’Ucraina non è l’Afghanistan. Ma ai nostri giorni erano in molti a credere che lo scenario dell’ultima grande guerra sovietica si sarebbe potuto replicare anche nel territorio ucraino. E tanto, specialmente sul fronte anglo-americano, ci sperano ancora. Le armi continuano ad arrivare copiosamente soprattutto su input di Washington e Londra, i consiglieri militari addestrano le forze ucraine, l’esercito russo avanza lentamente. L’intelligence britannica, forse lanciando un messaggio non voluto, ha paragonato il numero dei caduti russi in questi tre mesi di guerra a quelli dell’Unione Sovietica in tutti i nove anni di conflitto in Asia centrale. Una scelta di parallelismo che per Mosca significa fa riaffiorare uno dei peggiori incubi strategici della sua storia: quella guerra che doveva essere il sostegno a un governo alleato e che si rivelò invece un nuovo episodio di quella tradizione afghana di essere “tomba degli imperi”. Un nome su cui poi la storiografia ha dato un’interpretazione decisamente meno romantica, dal momento che quel territorio è stato soggetto, eccome, al potere di altri imperi, ma che ben di adatta alla realtà più recente di quel Paese asiatico. E che si adatta soprattutto alla più recente storia russa.

Il fatto che quella guerra sia durata dieci anni e che abbia caratterizzato proprio la fine dell’epoca sovietica non è un elemento secondario nella testa di Putin. Per gli uomini che oggi rappresentano le alte sfere politiche, militari e dell’intelligence della Federazione Russia, quel crollo ha rappresentato un trauma che ha modificato radicalmente anche la percezione di se stessi e del potenziale bellico dell’Urss. Un colpo che ha segnato la strategia russa e che soprattutto ha fatto capire che una guerra lunga e logorante può trasformarsi in un disastro se dall’altra parte ci sono le armi, i sistemi e le tattiche del blocco occidentali.

Di Lorenzo Vita. (Il Giornale/Inside Over)

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