La deriva anti francese in Africa, così Parigi rischia di perdere il Sahel

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epa09333688 French President Emmanuel Macron reacts during a joint press conference with Niger's President at the Elysee presidential Palace, in Paris, France, 09 July 2021, following a video summit with leaders of G5 Sahel countries after France's decision last month to reduce French anti-terror troops in West Africa. EPA/STEPHANE DE SAKUTIN / POOL MAXPPP OUT

(Roma, 03 febbraio 2022). Nei giorni scorsi il ministro degli esteri francesi Jean-Yves Le Drian, non ha usato troppi giri di parole per dire la propria sulla giunta militare che dal maggio scorso sta governando il Mali. Secondo il rappresentante diplomatico transalpino l’attuale governo maliano è “illegittimo” e sta prendendo “misure irresponsabili”. Da Bamako non l’hanno presa bene. Per Assimi Goita, il generale a capo del governo dall’ultimo (di una lunga serie) golpe del maggio scorso, Le Drian ha interferito negli affari interni del Mali. Ha così deciso di espellere l’ambasciatore francese Joel Meyer, aprendo una crisi diplomatica senza precedenti. L’episodio però ha origini ancora più remote. E non ha a che fare soltanto con il Mali, bensì con l’intera area del Sahel.

Da dove nasce il sentimento antifrancese

Il Mali, nell’area francofona del Sahel, è sempre stato un Paese piuttosto “ribelle” rispetto a Parigi. Nel 1962 Bamako aveva addirittura deciso di stampare una propria moneta al posto del Franco Cfa, quella attualmente in vigore in buona parte delle ex colonie francesi in Africa occidentale. Poi il Paese nel 1984 è rientrato nel gruppo, ma ancora oggi il dibattito sulla moneta è fonte di aspre polemiche. Persino uno degli imam più in vista di Bamako, il popolarissimo Mahmoud Dicko, negli ultimi anni ha aizzato le folle parlando di Franco Cfa come di strumento coloniale. Ma è un po’ in tutti i Paesi dell’Africa subsahariana che tematiche del genere stanno trovando molto spazio. Nelle elezioni senegalesi del 2019 alcuni candidati proponevano l’uscita di Dakar dalla moneta unica dell’area francofona. In Burkina Faso dal 2014 in poi, dopo il colpo di Stato che ha deposto Compaoré, sono ricomparse le effigie di Thomas Sankara e, con esse, le accuse alla Francia di aver orchestrato l’assassinio del “Che Guevara nero” avvenuto nel 1987.

A sud del Sahara c’è voglia di guardare verso orizzonti differenti. A Bamako, così come in altre capitali della regione, i giovani hanno gli smartphone e sono iscritti ai social. Possono quindi vedere cosa accade fuori e criticare aspramente cosa succede all’interno dei loro Paesi. Il senso di insicurezza legato al dilagare della pressione jihadista e la crisi economica acuita dal coronavirus stanno poi facendo il resto. Si è alimentato così un senso di insofferenza verso le attuali classi dirigenti e, di riflesso, verso la Francia accusata di addomesticare politici e presidenti corrotti per i suoi interessi. Le versioni africane dell’antipolitica hanno prodotto quindi sentimenti anti Parigi e hanno favorito il “contagio” golpista degli ultimi due anni. Tra tentati e riusciti, sono stati almeno sette i colpi di Stato in sei diversi Paesi (due nel solo Mali) nel Sahel dal 2020 in poi. I militari vengono appoggiati da buona parte della popolazione in quanto visti o come veri liberatori o come male minore. In Mali, come in Niger, in Burkina Faso, in Ciad e in altre nazioni dell’Africa occidentale per molti cittadini è meglio avere a che fare con un militare che con un politico legato alla Francia.

Russia e Turchia si avvicinano

É in questo quadro che rientra la decisione del generale Goita di espellere l’ambasciatore francese. Non tanto una prova di forza, né di carattere. Si è trattato più che altro di un chiaro segnale politico. Bamako vuole affrancarsi da Parigi. E i militari, dal canto loro, soffiare sulla ventata antifrancese dilagata in tutto il Sahel. Quasi a far vedere che, da adesso in poi, dall’Eliseo le parole indirizzate verso la giunta militare devono essere misurate. Anche perché Goita sta cercando di guardare altrove. Sul fuoco delle proteste in Mali c’è in parte anche la mano della Turchia. La popolarità dell’imam Dicko dimostra come le istanze islamiche stiano suscitando favore all’interno dell’opinione pubblica. In una fase in cui crescono i segnali di voglia di cambiamento, il peso delle istituzioni religiose locali è in effetti in netta crescita. E non è un mistero che lì dove è forte la spinta dell’Islam politico dietro c’è il favore e il fervore di Ankara. Ma la vera novità del quadro politico di Bamako è rappresentata dall’avvicinamento verso la Russia.

In estate la giunta di Goita ha siglato un accordo con la società di contractors Wagner, legata a doppio filo al Cremlino. Sui media francesi sono comparse di recente immagini che ritraggono mezzi russi in azione a Bamako. Un po’ come sta accadendo nella Repubblica Centrafricana, altro Paese francofono il cui governo ha scelto di avere uomini e mezzi della Wagner nel proprio territorio. Mosca, rientrata dallo scorso decennio prepotentemente in scena nel Mediterraneo, oggi sta espandendo il suo raggio d’azione anche nel Sahel e nell’Africa subsahariana. Un’incognita non solo per la Francia, ma per l’intero occidente. In Mali è in corso d’opera la missione Takuba, a cui partecipano anche 200 soldati italiani. L’operazione, il cui compito è quello di combattere contro i gruppi jihadisti ben radicati nel nord del Paese, vede infatti la presenza di diversi contingenti europei. Compresi quelli danesi, considerati però lo scorso 25 gennaio “non graditi” dal governo di Bamako. Una scelta che ha poi generato le esternazioni di Le Drian e la crisi diplomatica tra Mali e Francia. Cosa ne sarà adesso della missione? L’Ue, per bocca dell’alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell, vorrebbe mantenerla “ma non a tutti i costi”. La Svezia forse ritirerà i soldati. Ma Goita, ha fatto notare sui media transalpini il diplomatico francese Nicolas Normand, non ne ha mai chiesto il ritiro.

La scelta di Macron

Il presidente francese Emmanuel Macron si trova tra due forni. Da un lato le operazioni in Mali non hanno mai suscitato popolarità. Ma a pochi mesi dal voto, nemmeno ritirarsi del tutto dal Paese (e, di riflesso, da buona parte del Sahel) gioverebbe alla sua reputazione. L’Eliseo, anche per questo motivo, prende tempo. Due sono gli elementi che tranquillizzano la diplomazia francese nel lungo periodo. Da un lato la convinzione che né la Russia e né la Turchia hanno tutto l’interesse a prendere il posto di Parigi. Un conto è entrare nell’area di soppiatto, altro è governare in prima persona il vero e proprio pantano economico e politico in cui è caduto il Sahel. Dall’altro si scommette sulla non tenuta della nuove giunte militari, tanto in Mali quanto negli altri Paesi. Nessuno dei generali arrivati al potere, è il ragionamento fatto all’Eliseo, è in grado alla lunga di rispondere alle richieste di novità arrivate dalle popolazioni della regione. Infine soprattutto il Mali non può far a meno dei rapporti con la Francia, la mancata richiesta di porre fine all’operazione Takuba ne è la dimostrazione. Sotto la coltre del braccio di ferro politico, si nasconde un dialogo impossibile da interrompere del tutto.

Di Mauro Indelicato. (Il Giornale/Inside Over)