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IL MEDIO ORIENTE E IL DILEMMA DEGLI STATI UNITI

(Roma, 05 settembre 2021). Si discute molto, in questi giorni, sulla possibilità di esportare la democrazia in Medio oriente. Finendo, quasi sempre, con il negarla. A  partire dalla presa d’atto del fallimento degli esperimenti avviati negli ultimi due decenni: dall’Afghanistan all’Iraq e dalla Libia alla Siria. Tutti pagati, attenzione, soprattutto dalle popolazioni interessate con anni di guerra, di disordine e di miseria.
Il verdetto pare inappellabile. Ma, attenzione, non cancella affatto il problema. O, più esattamente, le responsabilità della  collettività internazionale, e in particolare, degli  Stati Uniti nei confronti dei popoli del Medio oriente.
Stiamo parlando dei diritti umani fissati, una volta per tutte, nelle dichiarazioni dell’Onu; libertà di fare e di pensare, certo, ma anche di non essere oppressi, uccisi o comunque privati, in ogni senso e in ogni modo, delle possibilità di avere una vita decente.
In quest’area del mondo la situazione è peggiorata in questi ultimi anni. E rischia, dopo il ritiro, comunque inevitabile, degli americani dall’Afghanistan, di peggiorare ancora.
Già siamo funestati da conflitti irrisolti. Da sanzioni, nella stragrande maggioranza orientate ad accrescere la miseria dei popoli, lasciando invece intatta la possibilità di nuocere dei loro governanti. Dalla crescita di tensioni tra nazioni, gruppi etnici e religiosi. E dalla permanente difficoltà ci conciliare l’islam di governo con l’affermazione di uno stato di diritto.
Oggi, poi , gli Stati Uniti, almeno  sinora, non solo si ritirano ma si chiamano fuori dall’Afghanistan.  Senza riconoscere il nuovo regime; ma mantenendo con questo i contatti necessari per garantire la fuoruscita della “loro gente” dal paese e per potere colpire, senza suscitare troppe proteste, gli jihadisti locali e gli uomini di al Qaeda.
Ciò pone ancora in forse la riunione del G 20. Mentre mantiene in vita l’opzione alternativa: quella di un incontro limitato ai paesi confinanti: Russia, Cina, Pakistan, Turchia, Iran. Incontro, quest’ultimo, almeno informalmente, già in corso. E con il tacito consenso degli stessi Stati Uniti. Perché garantisce, a costo zero, le loro esigenze immediate- neutralizzazione dell’Afghanistan come fattore di instabilità nell’area, sistemazione dei profughi nei paesi limitrofi –  senza coinvolgere gli americani e lasciando loro le mani libere nella difesa dei loro interessi immediati. E consentendo loro di procedere ancora lungo un doppio binario: contestazione retorica, in nome del “ mondo libero “ , del nuovo regime ;  ma, al tempo stesso, ricerca costante , anche se sottobanco, di accordi con questo stesso regime per la gestione delle crisi.
Chi scrive ritiene che, per un insieme di ragioni, la politica del doppio binario- contestazione retorica pubblica e ricerca di intese-  vada abbandonata al più presto per puntare decisamente nella seconda direzione. E, cosa che ci interessa qui direttamente, che questa scelta vada fatta proprio sul terreno della gestione della crisi afghana; nell’interesse della pace mondiale, dell’occidente ma anche, e magari soprattutto, dei popoli oppressi ella regione. A partire dall’Afghanistan, per arrivare al Libano.
In questa prospettiva, un’intesa che riguardi soltanto i talebani e i grandi stati vicini avrebbe certamente alcuni dati positivi: un qualche sostegno  economico per un paese alla canna del gas; una qualche tutela per le popolazioni e per quanti sono, giustamente, preoccupati per il ritorno del talebani; un impegno comune, questo sì, nella lotta al jihadismo e al qaedismo ; una qualche via d’uscita per gli oppositori del regime.
Ma rimarremmo lontani dal raggiungere uno qualsiasi tra gli obbiettivi di fondo: sblocco dei fondi congelati e  avvio di aiuti da parte delle istituzioni internazionali, vitali per evitare il collasso,un governo inclusivo;   un limite preciso ( “sin qui ma non oltre”) nell’applicazione della sharia ; la  possibilità di andarsene per chi ha i titoli per farlo. Mentre gli Stati Uniti e con loro l’Europa potrebbero, nel  quadro di un accordo locale , continuare a giocare su due tavoli:  da una parte, prendendo atto positivamente dei risultati raggiunti, ma in modo riservato; dall’altra denunciandone pubblicamente i limiti e il carattere strumentale. Rifiutandosi, peraltro, di impegnarsi pubblicamente in vista di un’intesa più cogente perché più generale.
Tutto si gioca, allora, su di un G 20, con la presenza attiva di Washington. Un appuntamento, tra l’altro, fortemente promosso dalle maggiori potenze europee.  Così da stroncare, tra l’altro e sul nascere, una lettura degli eventi  afghani in chiave di vittoria dell’Islam sul’occidente; e, quindi, come via aperta ad un suo ulteriore protagonismo.
Un messaggio che è già arrivato, senza bisogno di canali ufficiali, in Palestina e nel paese dei cedri. A Gaza e in Cisgiordania come improvviso stop agli accordi di tregua che sembravano vicini alla conclusione e come richiamo a nuove intransigenze. In Libano, come duplice attacco ai fondamenti stessi si cui si basa il rinnovo tacito del Patto Nazionale : la tenuta delle elezioni e le loro regole; e, soprattutto, il tentativo, neanche troppo mascherato, di trasformare il paese da luogo deputato del pluralismo religioso in un paese in cui, parafrasando Orwell: “tutte le religioni sono uguali ma ce n’è una che è più uguale delle altre” .
E qui occorre reagire. E senza limitarsi, come è avvenuto in passato, ad altolà verbali accompagnate, magari, da sanzioni che colpiscono gli innocenti- la popolazione- lasciando indenni i colpevoli, facilmente individuabili, tra l’altro come persone fisiche portatrici di interessi concreti. Per procedere nella direzione opposta: un patto internazionale di aiuti e di sostegno alle popolazioni accompagnato da una serie di regole e di impegni collettivi.
In questo quadro la tenuta del G 20, con la presenza americana, rappresenta un passaggio essenziale. Per dare all’arrivo degli aiuti e allo sblocco dei fondi oggi congelati la cornice politica che consentirà un riconoscimento del nuovo governo accompagnato dal l’accettazione, da parte di quest’ultimo , della necessità di porre dei limiti condivisi  ma, anche per questo invalicabili alla sua, peraltro legittima, pretesa di essere punto di riferimento obbligato  per la vita dell’intera società. Un richiamo a “limiti invalicabili” che varrà anche per l’Iran e per i suoi satelliti palestinesi e libanesi.
Sarà questo, nel merito e nel metodo, l’inizio di un processo virtuoso. E nell’interesse di tutti e, in prospettiva, anche delle attuali èlites ( si fa per dire), al potere in paesi che stanno andando più o meno apertamente, verso la rovina.
Avviare e, nel tempo, portare a compimento,  questo processo, spetta all’occidente e agli Stati Uniti. Nella consapevolezza che il “chiamarsi fuori”non potrà mai essergli perdonato.
Di Alberto Benzoni

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