Libano: esplosione di Beirut. Human Rights Watch condanna alti funzionari

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(Roma, 03 agosto 2021). A un anno di distanza dall’esplosione che, il 4 agosto 2020, ha devastato il porto di Beirut, Human Rights Watch (HRW), un’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto, in cui punta il dito contro alti funzionari politici e della sicurezza libanesi.

Il rapporto, di 127 pagine, è stato intitolato: “Ci hanno ucciso dall’interno”, con riferimento alle autorità del Libano, ritenute essere responsabili della presenza di quasi 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio presso il porto della capitale, la cui esplosione ha provocato 218 morti, circa 7.000 feriti e oltre 300.000 sfollati. Il documento è stato pubblicato oggi, 3 agosto, in un momento in cui la popolazione libanese si prepara a scendere in piazza per esprimere la propria rabbia contro la negligenza delle autorità, che si pensa fossero a conoscenza della presenza di una “bomba atomica” a Beirut, ma che non hanno fatto nulla. Tale ipotesi è appoggiata da HRW, che ha documentato tutti gli errori e le omissioni commesse anche sul modo in cui è stata gestita la spedizione del nitrato di ammonio, sin dal suo arrivo al porto di Beirut, il 16 novembre 2013.

A detta dell’organizzazione, funzionari, tra cui è stato incluso anche il presidente Michel Aoun, leader della sicurezza e dell’esercito, erano consapevoli dei possibili pericoli derivanti dall’immagazzinamento di una risorsa di tal tipo, ma hanno tacitamente accettato il rischio. Secondo le leggi in vigore nel Paese, tali azioni potrebbero equivalere a un omicidio intenzionale e/o non intenzionale.

Nel mirino di HRW vi sono i funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici e dei Trasporti, i quali sono stati avvertiti del pericolo, ma non sono riusciti a comunicarlo correttamente alla magistratura o ad indagare adeguatamente sulla potenziale natura esplosiva del carico della nave attraccata nel 2013. Questi hanno poi immagazzinato consapevolmente il nitrato di ammonio, insieme ad altri materiali infiammabili o esplosivi, per quasi sei anni, in un hangar scarsamente protetto e poco ventilato, in un’area commerciale e residenziale densamente popolata, contravvenendo alle linee guida internazionali per lo stoccaggio e la gestione del nitrato di ammonio. Inoltre, secondo quanto riferito, i suddetti funzionari non sono riusciti a supervisionare adeguatamente i lavori di riparazione intrapresi nell’hangar 12, che potrebbero aver innescato l’esplosione del 4 agosto 2020.

La corrispondenza ufficiale con i funzionari doganali, posti sotto il controllo del Ministero delle Finanze, dimostra che una serie di dipendenti di tale dicastero erano anch’essi consapevoli del pericolo. I funzionari delle Dogane hanno dichiarato di aver inviato almeno sei lettere alla magistratura ,chiedendo la vendita o l’esportazione del materiale esplosivo, ma le loro richieste sono state respinte, in quanto non corrette da un punto di vista procedurale. Tuttavia, funzionari giudiziari intervistati da Human Rights Watch hanno affermato che le Dogane non avevano bisogno dell’autorizzazione giudiziaria per vendere, riesportare o distruggere il materiale.

Anche il comando dell’esercito libanese è stato accusato di aver sottovalutato i pericoli relativi alla presenza di nitrato di ammonio nel porto, anche dopo aver appreso che il grado di azoto classificava la sostanza come materiale idoneo a fabbricare esplosivi e, pertanto, era necessaria l’approvazione dell’esercito per essere importato e ispezionato. I servizi di intelligence militare, da parte loro, non hanno adottato misure precauzionali o volte a garantire sicurezza né hanno delineato un piano di risposta alle emergenze.

Il presidente Michel Aoun, presidente del Consiglio superiore di difesa, ha ammesso di essere a conoscenza della presenza del nitrato di ammonio almeno dal 21 luglio 2020 e di aver chiesto a un consulente di seguire la questione, ma ha affermato di non essere responsabile dell’incidente. L’ex primo ministro Hassan Diab, vicepresidente del suddetto Consiglio, era a conoscenza della presenza del nitrato di ammonio dal 3 giugno 2020, ma non ha intrapreso alcuna azione, se non riferire del rapporto dei servizi di Sicurezza dello Stato, del 20 luglio 2020, ai Ministeri della giustizia e dei lavori pubblici.

Nell’anno successivo all’esplosione, spiega l’organizzazione, le indagini hanno messo in luce difetti procedurali e sistemici, che rendono difficile avere fiducia nella giustizia libanese. Tra i fenomeni riscontrati vi sono la mancanza di indipendenza giudiziaria, l’immunità per i funzionari politici di alto livello e la violazione degli standard per garantire processi giudiziari equi. Inoltre, vi sono prove che dimostrano come alcuni abbiano addirittura ostacolato le indagini relative all’incidente.

Alla luce di ciò, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite è stato esortato ad aprire un’inchiesta, mentre i Paesi aderenti al Global Magnitsky e a regimi di sanzioni per i diritti umani e simili sono stati invitati a sanzionare i funzionari implicati nelle continue violazioni dei diritti umani derivanti dall’esplosione del 4 agosto. Il presidente esecutivo di HRW, Kenneth Roth, ha proposto una missione conoscitiva di un anno, affermando che la comunità internazionale ha il dovere di “intervenire” se le indagini libanesi continuano a essere interrotte. Per Roth, un’indagine del Consiglio per i diritti umani non equivarrebbe a un processo o procedimento penale, ma cercherebbe semplicemente di stabilire la verità su quanto accaduto.

Finora, 25 persone sono state detenute in relazione all’esplosione del 4 agosto 2020, perlopiù lavoratori e funzionari portuali di livello inferiore e medio. Tredici sono stati rilasciati, mentre il responsabile doganale, Badri Daher, e il capo dell’autorità portuale di Beirut, Hasan Kraytem, sono ancora detenuti. Il mese scorso, il ministro dell’Interno custode, Mohamad Fahmy, non ha concesso l’autorizzazione a perseguire il capo dell’agenzia di Sicurezza Generale, il maggiore generale Abbas Ibrahim, così come richiesto dal giudice responsabile del caso, Tareq Bitar. È stato quest’ultimo a chiedere, il 2 luglio, di annullare l’immunità anche per l’ex ministro delle Finanze, Ali Hasan Khalil, l’ex ministro per i Lavori pubblici, Ghazi Zaiter, e l’ex ministro dell’Interno, Nohad Machnouk. Questi, a detta di Bitar, potrebbero essere accusati di negligenza e possibile tentato omicidio e, pertanto, è stato richiesto di sottoporli a interrogatori. Tuttavia, a circa un mese dal primo anniversario dall’incidente, l’8 luglio, alcuni deputati libanesi hanno chiesto maggiori prove prima di revocare l’immunità e consentire di interrogare i funzionari governativi.

Piera Laurenza. (Sicurezza Internazionale)