(Roma, 14 luglio 2021). La vicenda del porto è la sintesi tragica di un processo politico che ormai va definito per quello che è: il braccio militare di Hezbollah si è impossessato dei commerci leciti e illeciti che avvengono nel Paese e soprattutto attraverso il poroso confine tra Libano e Siria, ha trasformato il sistema bancario libanese.
La scena va raccontata dall’inizio, perché un osservatore distratto potrebbe pensare che nei palazzi del potere di Beirut nelle ultime ore sia stata rappresentata una delle più famose opere teatrali di Ionesco, “La cantatrice calva”, quella che ha il suo apice nella domanda e risposta: “Che fa la cantatrice calva ? Si pettina”.
Il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, ex generale protagonista dei tempi della guerra civile insieme all’uomo che ha voluto ministro dell’interno e che da un anno come tutto il governo è dimissionario in attesa del nuovo esecutivo, ha ricevuto a Palazzo la rappresentanza diplomatica europea: in Libano, ha assicurato, le elezioni politiche si svolgeranno puntualmente nella primavera del prossimo anno e Beirut sarà lieta di ospitare gli osservatori europei. La rappresentanza europea ha espresso gratitudine e soddisfazione, assicurando che i nostri osservatori giungeranno per tempo.
Intanto il ministro dell’Interno, indicato a suo tempo da Aoun e che da giorni da ministro dimissionario non autorizza i magistrati libanesi a interrogare il generale Abbass Ibrahim, molto vicino a Hezbollah, dai mille rapporti oscuri come ha dimostrato il suo coinvolgimento in vicende siriane e capo di una delle intelligence libanesi, per l’esplosione che un anno fa distrusse il porto di Beirut e un numero incalcolabile di palazzi e di vite umane, vedeva sotto la sua residenza aumentare il numero di parenti delle vittime dell’esplosione del 4 agosto scorso, indignati dal suo comportamento. Portavano in processione tante bare vuote, quelle dei loro cari, per i quali affermavano che non si vuole giustizia. Quello che si svolgeva così in pieno centro cittadino era un processo al potere e soprattutto al binomio Aoun-Hezbollah. Quindi il ministro ha ordinato alle forze di sicurezza di disperdere i manifestanti. I parenti delle vittime della più grave tragedia del Libano post-bellico sono stati picchiati nella loro città, dispersi con maniere rudi, in un Paese dove ormai scarseggiano anche le medicine, la valuta precipita, tutto va a rotoli. Dunque a Beirut ieri non è stata rappresentata la “Cantatrice calva” di Ionesco, ma “Le mani sporche” di Sartre.
La vicenda del porto è la sintesi tragica di un processo politico che ormai va definito per quello che è: il braccio militare di Hezbollah si è impossessato dei commerci leciti e illeciti che avvengono nel Paese e soprattutto attraverso il poroso confine tra Libano e Siria, ha trasformato il sistema bancario libanese. Tutti ricordano i militanti di Hezbollah esultare per la dichiarazione di default del Libano, asserendo che fosse una sfida a Fondo Monetario e Banca Mondiale. Poi è emerso che il 40% del deficit nazionale è dovuto alla catastrofica gestione interna (e largamente condivisa) dell’approvvigionamento energetico.
Ma nella corruzione e cecità diffuse la centralità politica del disastro libanese rimane intestata all’esplosione del porto, che non è stata soltanto un segnale politico alla vigilia della sentenza del tribunale internazionale per il Libano che ha condannato un effettivo di Hezbollah per l’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri. È stato un evidente “metropolicidio”, cioè l’assassinio di una città che con la sua storia e identità cosmopolita ha sfidato tutti i disegni e progetti miliziani che la hanno coinvolta.
La giornata di ieri ha dunque reso evidente il concorso in “metropolicidio” di una classe politica il cui cinismo arriva a lasciare un Paese senza governo da un anno mentre il fallimento economico e istituzionale del Paese ha ridotto i libanesi, più del 50% di loro, a vivere sotto la soglia di povertà. Senza governo le riforme strutturali indispensabili per avviare il salvataggio del Paese sono impossibili. Ma il governo non si fa, i magistrati inquirenti ogni volta che tentano di interrogare qualcuno sull’esplosione del porto vengono fermati, e chi avanza ipotesi su quanto realmente accadde quel giorno viene assassinato a pistolettate per strada, come è accaduto da ultimo a un noto intellettuale sciita e dissidente, Luqman Slim.
Mandando in scena “Le mani sporche” i palazzi del potere di Beirut hanno detto che la verità sull’esplosione del porto non va cercata, che il potere non si fa processare, né in strada né nelle aule di giustizia; Beirut è già una periferia di Tehran? Non sorprende che a Beirut molti siano convinti che presto proprio il generale Abbass Ibrahim, quello che non deve essere interrogato sull’esplosione del porto di Beirut, sia l’uomo a cui guardare per la possibile sostituzione di Berri alla presidenza del Parlamento libanese. Voci, ipotesi, ma quelli di ieri sono fatti davanti ai quali la possibilità che l’Europa decida davvero di imporre sanzioni a quei politici libanesi che impediscono la costituzione del nuovo governo appare un passo tanto necessario quanto tardivo.
Di Riccardo Cristiano. (Formiche)