(Roma, 06 aprile 2021). Voltaire pensava che le guerre sarebbero diventate , ben presto, un’anomalia. Quelle tra i signori, perché oggettivamente insensate. Così come quelle provocate dal fanatismo religioso. tra popoli, perché provocate dal fanatismo, in particolare, religioso. Morì dieci anni prima dello scoppio della rivoluzione francese.
Oggi le guerre moderne tendono a scomparire. Ma perché
sostituite, parafrasando Clausewitz, dalla guerra condotta con tutti i mezzi , meno quello del conflitto militare aperto. Per la collettività internazionale e per le persone un peggioramento. Perché la guerra è una malattia violenta da cui però si guarisce. Mentre la guerra con altri mezzi è una lenta degenerazione di tutto l’organismo da cui è sempre più difficile guarire.
Tra questo tipo di conflitti quello tra israeliani e palestinesi è, o almeno appare, unico nel suo genere. Unico, perché vede il confronto tra due progetti nazionali di forza assolutamente diversa (eccezionale, sia sul piano concreto che su quello simbolico, quello sionista, di forza solo simbolica quello palestinese). Mentre l’unico atout dei secondi sono il fattore tempo (il sionismo è comparso troppo tardi, nel novecento dei nazionalismi) e il fattore luogo (lo sviluppo del progetto sionista avviene in un territorio inospitale, proprio perché già occupato da altri).
Unico, ancora, perché oggetto di attenzione costante, anche se variabile nel tempo, da parte del mondo esterno (retroterra arabo, grandi potenze, istituzioni internazionali, Europa, opinione pubblica).
Un’attenzione che avrà due importanti riflessi. Sull’intensità del conflitto e sulla sua letalità (qui gli israeliani sottolineano, e con ragione, che tra tutti i conflitti esplosi nel terzo mondo, quello che ha causato meno perdite umane e in un lasso di tempo infinitamente maggiore). E ancor di più, nell’impedire che il conflitto stesso si concludesse con la vittoria completa di una delle due parti.
Unico, perché arma fondamentale della guerra tra due progetti incompatibili tra loro è la delegittimazione reciproca di cui il «palestinesi non esistono» di Golda Meir è, diciamo così, superato dall’«entità sionista», a significare il fatto che Israele fosse uno stato fantoccio creato e mantenuto in vita dall’imperialismo occidentale.
Unica, per l’approccio radicalmente diverso dei due contendenti. I palestinesi, a ricordare i torti subiti e a chiederne la riparazione (magari, sotto sotto, anche solo simbolica) come premessa per qualsiasi discorso sul merito; considerando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 1967, come una specie di linea di linea del Piave da difendere a tutti costi. Gli israeliani, a considerare come «cosa giudicata» quanto era avvenuto in precedenza; e a guardare al negoziato come un «do ut des» in cui qualsiasi concessione doveva essere accompagnata da garanzie, in termini di sicurezza, la cui valutazione era di loro assoluta competenza.
Unica, infine, perché tutt’altro che lineare nel corso del tempo (così come l’attenzione del mondo esterno). Così il popolo dimenticato degli anni sessanta, diventerà una anzi la Causa internazionale nel trentennio successivo, con Arafat premio Nobel per la pace, anni dopo aver sventolato ulivi e mitra di fronte all’assemblea dell’Onu; mentre non molti anni dopo morirà, abbandonato da (quasi) tutti e senza che le cause della sua morte interessassero qualcuno e la Causa sarà soltanto un peso fastidioso da sostenere per pura forma.
Oggi, politici e opinionisti sono concordi nell’interpretare gli eventi recenti come chiusura definitiva della partita.
Perché il tema è ignorato nei cosiddetti accordi di Abramo. Perché non ha avuto, alcuna rilevanza nelle recente competizione elettorale. E, infine perché Israele avrebbe acquisito una totale libertà di movimento in relazione con l’impotenza e il totale discredito della controparte.
Pure, ci sono una serie di fatti mettono seriamente indubbio questa valutazione.
Il primo è una sorta di altolà da parte delle autorità emiratine. Queste non hanno gradito (e l’hanno fatto sapere con un comunicato piccato) di essere state utilizzate a sostegno della campagna elettorale di Netanyahu. Aggiungendo che il Nostro non disponeva di alcun assegno in bianco nei territori occupati. Per poi bloccare la visita di Bibi a Dubai come reazione all’affronto subito dalla Giordania sulla questione dell’accesso ai Luoghi santi. Il tutto mentre i flussi turistici tra i due paesi tendono a diradarsi.
Le elezioni alla Knesset, è vero, sono state le prime in cui la questione palestinese è rimasta completamente fuori dalla porta. Ma questo è stato, nell’insieme, un bene e non un male. Perchè il bau bau del nemico mortale alle porte dopo gli accordi di Abramo e la totale passività con cui erano stati accolti da tutta la galassia palestinese non funzionava più. Da questo momento in poi a riempire la scena saranno i problemi interni del paese: stato laico o stato clericale, stato liberista o stato sociale, stato normale o eccezione da preservare, stato di diritto o governo personale e, infine, stato degli ebrei o stato di tutti. Un’apertura verso il nuovo simboleggiata da tre eventi: Netanyahu, in giro nelle aree a maggioranza araba a promettere aiuti e a scusarsi per i suoi atteggiamenti passati nei loro confronti; la nascita di un nuovo partito arabo in un orizzonte molto simile a quello del nostro partito tirolese; e ancora una destra israeliana sconfitta e irrimediabilmente divisa.
Nei territori occupati, poi, almeno potenzialmente, di fronte ad una vera rivoluzione copernicana. Rappresentata dalla indizione di nuove elezione (a sanare una situazione di vero e proprio degrado istituzionale) e dalla annuncia candidatura di Barghouti; già accompagnata da sondaggi estremamente favorevoli.
Una candidatura, così dicono le cancellerie occidentali, «oggetto di attenta riflessione». Tradotto in volgare: «sappiamo benissimo quale sia l’offerta politica del leader palestinese; ma non siamo di decidere se accettarla o no».
Per gli osservatori esterni e per tutti gli uomini di buona volontà un richiamo alla cautela; ma anche l’obbligo di chiarire la natura di questa offerta.
Schematizzando al massimo, siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione copernicana: che pone al suo centro non più le sistemazioni future ma le necessità del presente. E che ha al suo centro non già lo stato palestinese e i gestori della sua Causa ma il popolo palestinese e i suoi bisogni più elementari. Facendo sì che la situazione di totale inferiorità e di drammatico bisogno in cui vivono, a stretto contatto con gli israeliani, 9 milioni di persone, si tramuti in titolarità di diritti.
Molto dipenderà dalla disponibilità israeliana. E qui l’essere fiduciosi è un dovere.
(Alberto Benzoni)