Le mani di Ankara sull’Islam politico in Europa

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(Roma, 26 marzo 2021). La moschea più grande d’Europa avrà sede a Strasburgo, verrà completata nel 2025, con tanto di due minareti alti 36 metri e con una spesa totale di 25,6 milioni di euro (soltanto per la moschea, mentre l’intero cantiere ammonta a 36 milioni); in realtà però la notizia che fa scalpore non è tanto il progetto in se, quanto il fatto che a finanziarla e supportarla sono due associazioni islamiche turche vicine all’islamo-nazionalismo di Erdogan che si sono anche rifiutate di firmare la nota “Charte de principes pour l’islam de France“, il documento concordato lo scorso gennaio tra il governo francese e il Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm).

Le due associazioni islamiche turche, precisamente la Mili Gorus e il Comité de coordination des musulmans turcs de France (Ccmtf), sono quindi finite nell’occhio del ciclone in quanto, come si vedrà più avanti, la Carta include dei principi fondamentali non solo per quanto riguarda il contesto costituzionale francese, ma anche in ambito di uguaglianza, reciprocità e diritti umani a livello globale.

Come se non bastasse, è anche emerso che il progetto moschea riceverà ben 2,5 milioni di euro in soldi pubblici, grazie al sindaco ecologista del partito Eelv, Jeanne Barseghian che si è appoggiata alla legislazione della Alsazia-Mosella che permette ai culti di ricevere finanziamenti pubblici che possono arrivare fino al 10% del costo totale del progetto. La più grande moschea d’Europa, che sorgerà nel quartiere di Meinau (noto per l’elevata presenza di turchi), verrà dunque finanziata anche con i soldi dei contribuenti; un fatto che sta scatenando forti polemiche in Francia e che ha notevolmente irritato il Ministro dell’Interno Gerald Darmanin, fautore della linea dura contro quell’Islam politico e separatista, ideologicamente legato ai Fratelli Musulmani, che sta creando non pochi problemi in Francia e nel resto d’Europa.

L’islamo-nazionalismo turco

Il 24 marzo, durante una diretta televisiva, il responsabile per la Francia orientale della Mili Gorus, Eyup Sahin, ha dato dell’”ignorante” al Ministro degli Interni francese Darmanin, per aver affermato che il progetto-moschea è oggetto di ingerenza turca ed ha aggiunto che i finanziamento per il luogo di culto più grande d’Europa provengono dai fedeli musulmani di Strasburgo e da altre moschee europee facenti parti di Mili Gorus. Pur negando finanziamenti da parte di Erdogan, Sahin è rimasto molto vago.

Certo, considerando la spesa totale del cantiere pari a 36 milioni di euro (con 25,6 indirizzati alla moschea), togliendo i 2,5 coperti dai fondi pubblici locali, restano 33,5 milioni, non certo bruscolini. È plausibile che una cifra del genere possa essere coperta esclusivamente con le offerte dei fedeli musulmani di Strasburgo e con donazioni di altre moschee sotto l’ombrello della Mili Gorus? Quest’ultima da dove riceve i finanziamenti che vengono poi indirizzati al progetto-moschea ?

Insideover ha provato a contattare Eyup Sahin per chiedere delucidazioni e la possibilità di visionare documentazioni sui finanziamenti, ma allo stato attuale non ha ricevuto risposta.

Le organizzazioni Ccmft e Mili Gorus rientrano entrambi in quello che viene definito da Parigi come “Islam politico” o “separatismo islamista” di matrice turca. La prima legata al direttorato governativo per gli affari religiosi “Diyanet“, mentre la seconda fondata nel 1969 da Necmettin Erbakan e indicata da numerosi studiosi come legata all’ideologia islamista dei Fratelli Musulmani. Entrambe sono oggi diventate macchine della propaganda islamista di Ankara al punto da venire definite dall’esperto di Fratellanza, Lorenzo Vidino, come “ La lunga mano di Erdogan in Europa“.

Anche in Italia esponenti di Mili Gorus venivano più volte presi in castagna mentre pubblicavano sui social post a favore di Erdogan, dell’ex presidente islamista egiziano Mohamed Morsi e contro Macron. Alcune bandiere di Mili Gorus e turche venivano inoltre immortalate a manifestazioni anti-Assad a Milano. Un altro esempio lampante che l’Islam politico è un problema anche al di fuori dei confini francesi.

La strategia d’infiltrazione e condizionamento delle due organizzazioni in ambito islamico turco in Europa veniva già denunciata ed esposta nel 2010 dalla ricercatrice Zaynep Yanasmayan nel suo approfondimento per Insight Turkey dal titolo: “The role of Turkish Islamic Organizations in Belgium: The Strategies of “Diyanet” and “Milli Görüş“.

Un’eventuale interferenza di Ankara all’interno dell’Islam presente in Europa non può non destare preoccupazione, in relazione alla deriva autoritaria ed aggressiva della Turchia erdoganiana, sia sul piano domestico che internazionale. Non dimentichiamo che la Turchia è oggi, secondo quanto reso noto da Amnesty International, la più grande prigione per giornalisti al mondo. Ankara ha inoltre sostenuto e persino esportato jihadisti in Siria e Libia, come già emerso in più occasioni.

I diritti negati dagli islamisti

Come se non bastasse, lo scorso 20 marzo la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul (sulla lotta alla violenza contro le donne), sottoscritta da 32 Paesi nel 2011. La versione fornita da Ankara accusa la Convenzione di “mettere a repentaglio la famiglia, di incoraggiare i divorzi e favorire la comunità Lgtb” e il vicepresidente turco, Fuat Oktay, ha affermato che “non è necessario imitare gli altri” e che Ankara è già impegnata a salvaguardare la dignità delle donne “al livello che meritano”. Un’affermazione che non può non destare perplessità. Del resto tra il 2018 e il 2020 i femminicidi in Turchia sono stati più di 1200 e soltanto nei primi due mesi del 2021 se ne contano già 74.

Il fatto che la Turchia si sia ritirata dalla Convenzione non deve stupire, così come non può sorprendere il fatto che le due organizzazioni islamiche turche già citate si siano rifiutate di firmare la “Carta dei principi per l’islam di Francia” che nei suoi articoli esprime punti più che eloquenti. Gli articoli 1,2,3, 4 e 5 ad esempio affermano chiaramente la libertà di coscienza, dunque di poter cambiare religione o di non credere affatto (e ci mancherebbe altro che non fosse così); la parità tra uomo e donna; il contrasto all’omofobia, alla misoginia e all’antisemitismo. Vi sono poi principi che supportano laicità, libero arbitrio e ragione. L’articolo 6 è invece chiaramente rivolto contro ingerenze straniere di stampo politico volte a influenzare il culto islamico di Francia. Non è dunque difficile capire perché alla Turchia questa “Charte” non piace e a questo punto non si può fare a meno di chiedersi per quale motivo una certa sinistra continua a sostenere organizzazioni e associazioni che promuovono idee agli antipodi con quelle progressiste da sempre sbandierate da quell’area politica.

Secondo quanto dichiarato da Sahin, la Mili Gorus non avrebbe firmato la Carta perché “non invitata a prendere parte alla sua stesura”, ma se i principi sono condivisi, non se ne comprende il rifiuto. Il governo francese dal canto suo è stato chiarissimo tramite le parole del Ministro degli Interni, Gerald Darmanin che ha affermato come la Mili Gorus non sia più in grado di far parte dei rappresentanti dell’Islam in Francia.

A Parigi hanno finalmente capito che l’infiltrazione dell’Islam politico in Europa è un problema serio ed hanno ragione quando fanno riferimento al “separatismo islamista”, definibile come ideologia della contrapposizione che punta a creare spazi separati, “puri”, all’interno della società europea per poi imporre regole conformi all’islamismo e incrementare la propria influenza all’interno e all’esterno della comunità islamica. Purtroppo per il momento gli altri Stati europei non sembrano voler seguire le orme della Francia, se ne guardano bene, Italia inclusa.

Giovanni Giacalone. (Inside Over)