(Roma 25 dicembre 2020). Gli Stati che, di recente, hanno aperto rapporti diplomatici normali con Israele hanno due caratteristiche comuni. La prima è quella di non essere mai entrati in guerra contro lo stato ebraico. La seconda è quella di ricevuto qualcosa- dagli Stati Uniti o dall’ambiente circostante- in cambio della loro scelta. Per gli Emirati, la possibilità di trarre il massimo vantaggio possibile dal fiorire degli scambi e delle risorse d’ogni tipo con lo stato ebraico e senza alcuna controindicazione. Per il Sudan, l’uscita dall’elenco degli stati terroristi predisposto dagli Stati uniti, con qualche controindicazione. Per il Marocco il via libera alla ripresa del conflitto con il Sahara occidentale ( in barba, per inciso, alle risoluzioni delle Nazioni unite) in modo o nella speranza di chiudere definitivamente una partita aperta oltre quarant’anni fa seppure con il rischio di riaprire il conflitto con l’Algeria.
Il loro potrebbe allora definito come matrimonio d’interesse. Il che non lo rende necessariamente fragile; al contrario.
Manca invece, curiosamente, all’appello quello che avrebbe dovuto essere, insieme un matrimonio di interesse e d’amore, almeno nelle intenzioni del suo promotore: l’America di Trump. Parliamo dell’Arabia saudita, la prima della lista nelle intenzioni dell’ex presidente americano. Ma che oggi, e nel futuro prevedibile, sembra destinata a rimanere se non fuori dalla porta, in fondo alla sala del ricevimento.
A porre Ryad in “pole position” il suo apparato militare; rafforzato costantemente da una spesa che è tra le più alte del mondo e che, nell’area mediorientale, è di otto/dieci volte superiore a quella dell’Iran. A confinarla, almeno per ora, in fondo alla fila, le politiche perseguite dall’erede al trono da anni a questa parte.
Scelte dettate da una convinzione che si basava su due premesse rivelatesi poi false. La prima era che le fragilità del regime potessero essere poste al riparo non più da quel ruolo di mediazione e di equilibrio seguito nel corso di decenni ma piuttosto da un interventismo a tutto campo e senza limiti. La seconda era che questo interventismo, senza limiti anche in prospettiva, potesse svolgersi con il pieno sostegno e appoggio della nuova amministrazione Usa.
Ma le cose non sono andate,come previsto. L’asse sunnita anti Assad è stato scompaginato dall’irruzione dell’Isis. Poi il mini golpe tentato in Libano con il mini sequestro del suo presidente del consiglio è la richiesta di emarginare Hezbollah è stato stroncato dal’arrivo di Macron. Nel frattempo c’era stato l’intervento militare nello Yemen. Un’operazione politicamente indifendibile soprattutto perché fallimentare, fonte di disastri umanitari e, in tutti i sensi, costosa; anche se coperta dagli europei e sostenuta, silenziosamente dagli Usa. E, ancora, la scomunica del Qatar, vanificata però dal tempo e dagli eventi.; primo tra questi il mutamento di rotta da parte degli Emirati. E infine l’omicidio, compiuto, praticamente, sotto l’occhio di tutti, di Kashoggi.
Rimaneva, però, nonostante tutto, la convinzione che l’asse politico-militare tra americani, israeliani e sauditi avrebbe retto sino a consentire azioni militari ( anche se di imprecisata natura) contro il regime di Teheran. Convinzione che, però, non ha retto al primo appuntamento. Quando, mesi fa, Trump ha fermato, all’ultimo momento, gli aerei in rotta per l’Iran. In risposta agli attacchi subiti da Ryad.
Da allora in poi, e anche in vista delle elezioni americane, l’alleanza tra stati e governi si è trasformata in un complotto di individui; e con il solo intento di creare una serie di fatti compiuti tali da limitare/ pregiudicare i margini di manovra e le strategie di Biden. Ricordiamo, a questo riguardo: la visita di Pompeo ai coloni; le nuove sanzioni all’Iran; la proposta di includere tra le organizzazioni terroriste Amnesty International e Oxfam; e “last but not least”, l’assassinio dello scienziato iraniano.
Provocazioni che non sono state raccolte. E soprattutto iniziative che non sono state avallate dai rispettivi governi.
Così l’incontro segreto tra Netanyahu e bin Salman è stato smentito da Ryad e ha suscitato una vera e propria tempesta politica a Gerusalemme. Così, guarda caso, l’accordo di pace è stato contestato all’interno della stessa famiglia reale; e con accenti ( “Israele stato coloniale”) che non si sentivano da decenni. Così, infine, l’eliminazione a freddo dello scienziato non solo non ha provocato le rappresaglie auspicate ma è stato accompagnato da un silenzio ostile. E non solo nel mondo arabo.
In queste condizioni, la nuova Triplice Alleanza ha perso, ancor prima di essere formalizzata, la sua principale ragion d’essere. E il formale ingresso dell’Arabia saudita trova una serie di controindicazioni che non sussistono, invece, nel caso degli Emirati; mentre questi trarranno dall’accordo una serie di vantaggi senza alcuna perdita di immagine.
Qui la diversità tra le due situazioni è sotto gli occhi di tutti.
Emirati: sede del più alto albergo del mondo e visitati da oltre 15 milioni di turisti, per una serie di ragioni, anche peccaminose. Arabia saudita, sede della Mecca, luogo di pellegrinaggi religiosi, referente di una variante non precisamente liberale della fede islamica. Emirati che hanno, comunque, tutto da guadagnare dallo sviluppo di ogni tipo di interscambio pacifico con Israele e senza particolari controindicazioni politiche. Arabia Saudita restia agli interscambi che ne mettano in discussione il modello e la cui apertura è irta di ostacoli e, appunto, di controindicazioni. Emirati noti a tutti per linee aeree, fondi sovrani, stadi, con il vicino Qatar, sede dei prossimi campionati di calcio; Arabia Saudita vista per moschee, predicatori e terroristi veri o potenziali. Emirati praticamente ignorati dai difensori dei diritti umani. Arabia saudita, sotto costante sorveglianza. Emirati non particolarmente impegnati a sostegno dei palestinesi . Arabia saudita in prima linea sostegno di una proposta di pace che salvaguardasse i loro diritti.
Pure Ryad ha buone possibilità di reinserirsi nel gioco. E, paradossalmente all’interno del nuovo scenario aperto dall’avvento di Biden. Difficile infatti che il dossier iraniano possa essere chiuso con un “do ut des”limitato allo scambio tra fine del programma nucleare e fine delle sanzioni; cammino questo limitato dalle inevitabili pregiudiziali e, per lo più, sottoposto al costante tiro al bersaglio dei repubblicani e del fronte anti iraniano in Medio oriente. E, allora, l’opzione con maggiore possibilità di successo è quella di aprire un negoziato molto più ampio in vista di un “do ut des”rappresentato, da una parte, dall’inserimento pieno di Teheran nella realtà che lo circonda e , dall’altra, da una risistemazione dell’area che escluda qualsiasi sua velleità egemonica e/o rivoluzionaria . Secondo gli “iranologi”questa opzione sarebbe seriamente presa in considerazione da un gruppo dirigente in difficoltà e quindi interessato al suo consolidamento più che a nuove avventure.
Così stando le cose un negoziato globale non può assolutamente essere un negoziato a due. Conseguentemente, il regime saudita, come altri, ha, insieme, il diritto e il dovere di parteciparvi in tutte le forme possibili. Nell’immediato per ridurre le tensioni e i pericoli; in prospettiva per far sì che il Medio oriente non sia travolto dalla guerra di tutti contro tutti e da una rovina generale.
Giunge, ora, notizia che una richiesta in tal senso sarebbe stata formulata da Ryad; e non solo. Non siamo in grado, naturalmente, di affermare che sia vera. Ma è verosimile. E tanto basta. Almeno per ora. (Alberto Benzoni)