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Il mondo di Trump (e quello di Biden)

(Roma 03 Ottobre 2020). Trump aveva due obbiettivi: rendere l’America grande abbassando (quasi) tutti gli altri; colpire i reprobi  senza ricorrere alle armi, simbolo di quell’ »interventismo democratico » per cui prova una vera e propria repulsione.

Tutto il resto, e non è poco, appartiene alle sue ben note storture personali: dal culto per l’apparenza sino all’avversione senza limiti nei confronti di Obama.

Difficile, comunque farne un bilancio. Si fa un bilancio quando c’è una situazione di stabilità;  o una battaglia vinta; o un’evoluzione prevedibile. Mentre, oggi, nulla è sostanzialmente acquisito.

Allo stesso modo, si possono soltanto ipotizzare le future scelte di Biden;  perché sulle scelte internazionale è rimasto, almeno sinora, in un cauteloso silenzio e soprattutto perché molte delle sue prevedibili strategie troveranno resistenze feroci.

E’ questo il caso dell’America latina. Qui regimi di destra  antiliberali e antidemocratici, sono saldamente al potere, mentre la sinistra messicana e argentina fatica a resistere all’impatto del coronavirus e della crisi economica. Qui lo stesso Messico sta bloccando sulle sue frontiere i migranti che prima bussavano alle porte degli Stati uniti; mentre un esule cubano, diventato falco Usa, si appresta a guidare la Banca interamericana di sviluppo.

Qui Biden potrà al massimo ritornare ad avere rapporti normali con Cuba e con il Venezuela (anche perché la « pressione massima di Trump » ha fatto soffrire soltanto le popolazioni). Per il resto, piedi di piombo.

L’attacco alle organizzazioni internazionali- nell’alternativa tra abbandono e conquista-dovrebbe cessare in caso di vittoria di Biden; magari perché le « vittorie » ottenute da Trump si stanno sempre più rivelando come vittorie di Pirro. Ma per ricostruire un rapporto ci vorrà del tempo.

Sul fronte europeo e russo, le cose non cambieranno molto. Trump ha seguito, in economia, il suo istinto protezionista e mercantilista; farà più o meno lo stesso anche Biden anche per il suo rapporto stretto con il mondo sindacale. Per il resto, siamo alla paralisi: Trump bloccato sulla questione russa dalle resistenze dell’establishment, in questo bipartisan; l’Europa da profonde divisioni che la caratterizzano e su qualsiasi problema. Con Biden, apostolo dei « valori », le tensioni potrebbero anche peggiorare; molto dipenderà dall’atteggiamento di Putin durante la campagna elettorale USA e dopo.

Sulla questione cinese l’ossessione trumpiana per il « pericolo giallo » sta, almeno in parte, pagando politicamente. Ma è sicuramente perdente su quello economico. Dove non ha trovato alcuna udienza né da parte degli stati, ancora avidi di investimenti e di prestiti (a prescindere dal loro orientamento politico, vedi Medio oriente) né da quella delle imprese (ivi comprese quelle americane): in una crisi economica generale, in cui la ripresa è, ancora una volta, legata alle esportazioni, l’attrattiva del mercato cinese, tra l’altro già in crescita, è irresistibile. Con Biden il confronto rimarrà. Ma muterà la sua dimensione; tramutandosi in una pressione e insieme in un negoziato collettivo sulle regole del commercio internazionale e in una maggiore insistenza sul tema dei diritti umani.

La situazione in Medio oriente merita una riflessione più approfondita. A partire dal  fatto, apparentemente paradossale, che il valore innovativo dell’avvento di Biden, e le sue possibilità di successo, saranno legati non al fallimento della politica di Trump ma dai suoi successi.

Nel 2016 era accaduto l’opposto. Perché Trump si era avvalso delle debolezze del disegno obamiano. Vedi scommessa sulle primavere arabe e sui fratelli musulmani; vedi priorità della questione palestinese; vedi accodo sul nucleare iraniano.

Totalmente diverso il progetto trumpiano, ma comune l’obbiettivo finale; creare le condizioni per il disimpegno.

Un disimpegno che sarà contestato da un vasto arco di forze: dai nostalgici neocon della guerra fredda sino ai sostenitori della « politica dei valori ».

Di fatto, in Afghanistan come, e in minor misura, un Iraq il ritiro potrà forse lasciare uno spazio ad un confronto interno vinto dai « cattivi »; ma è sicuramente una soluzione che pone fine ad un impegno estremamente costoso e senza possibilità di successo.

In Siria, invece, il  progetto iniziale-abbattere il regime di Assad-aveva assoluto bisogno di alleati, locali o internazionali. Ma questi alleati non si sono mai materializzati.  Francia e Inghilterra si sono tirate indietro nel momento decisivo; la borghesia siriana (vera vittima del conflitto) non aveva armi: la progettata alleanza con il fondamentalismo sunnita è saltata con l’avvento dell’Isis; i turchi non andavano bene; e i curdi, l’alleato ideale, erano troppo deboli e avevano troppi nemici per essere dichiarati tali.

Si dirà che oggi la Siria è popolata da nemici o da falsi alleati. Ma, in realtà, la cosa non preoccupa più di tanto. Assad governa, si fa per dire, un paese in rovina ( anche per effetto delle sanzioni Usa che colpiscono anche il Libano) e una popolazione ostile; russi e turchi si neutralizzano a vicenda; gli iraniani sono sotto  controllo; e non ci sono accordi di pace in vista

Tutti fermi, compresi i politici libanesi, anche in attesa elle elezioni americane.

E qui l’avvento di Biden cambierebbe totalmente le carte in tavola. A partire dalla trasformazione dell’Iran da nemico pubblico n.1 in possibile partner di una « risistemazione » del Medio oriente.

Ci sarà, certo, la feroce opposizione repubblicana; ma non quella di Israele. Già il « grande accordo » con i paesi del Golfo aveva reso molto meno credibili le minacce degli ayatollah e, quindi, la necessità dello scontro . Ed è allora probabile che un negoziato generale che includa la rinuncia del regime iraniano ai propri disegni egemonici in cambio del suo reinserimento nell’ordine internazionale sia per Israele una opzione appetibile.

Ci vorrà, certo moltissimo tempo per arrivare nel paese di Canaan. Ma, in ogni caso, si sarà abbandonato l’Egitto, con tutte le sue piaghe.

Alberto Benzoni

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