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Libano: prima e dopo il dramma di Beirut

(Roma 14 agosto 2020). Prima del dramma di Beirut, il Libano, il paese di mia madre, poteva a buon diritto essere considerato un paese allo sfascio. E con pochissime speranze di salvezza.

A prima vista, uno dei tanti esempi del rapporto perverso tra governanti e governati. I primi che non vogliono ascoltare; i secondi che non sanno farsi sentire. Ma con l’importante differenza che non ci troviamo qui di fronte ad un governo autoritario ma efficiente ma così debole e corrotto da non garantire nemmeno le più elementari condizioni di vita del suo paese: dai servizi pubblici alle banche; dalla politica all’economia.

Per molti intellettuali occidentali, ricchi di presunzione e poveri di empatia, tutto ciò sarebbe la conseguenza fatale di una specie di peccato originale: la ripartizione degli incarichi, istituzionali e di altro tipo, tra le varie confessioni religiose, secondo una proporzione concordata e fissata una volta per tutte.

Un sistema che, per quanto se ne sappia, trova un solo, e assai più limitato , riscontro nella “proporz”; ossia nella distribuzione concordata degli incarichi pubblici sulla base del consenso ricevuto, tra socialisti e popolari nell’Austria del secondo dopoguerra. Così da non ripetere gli errori del passato; quando l’insanabile contrasto tra i due partiti aveva portato, prima all’installazione di un regime autoritario e poi all’incorporazione nel Reich hitleriano.

Un riferimento che serve, però, a mostrare la radicale differenza tra le due situazioni. Nell’Austria del 1946 si chiudevano positivamente i conti con il passato e in un contesto internazionale favorevole; nel patto fondativo del Libano indipendente  si creava un assetto istituzionale tale da impedire che una creatura fragile e anomala rispetto all’ambiente circostante potesse essere distrutta dall’impatto con il medesimo.

Fragile il Libano lo è stato da sempre. E in sommo grado. In particolare perché “oggetto del desiderio”da parte di una Siria che, non avendo mai accettato la nascita del nuovo stato, sarebbe sempre stata intenta a minarne e/o a distruggerne l’indipendenza. In generale, perché sempre più anomalo all’interno del cosiddetto “mondo arabo”:occidentale, anzi occidentalista in un mondo che considerava l’occidente fonte di tutti i suoi mali; tollerante di ogni diversità in un ambiente dominato dall’intolleranza; promotore di un capitalismo individual/commerciale chiuso tra capitalismi di stato e/o di regime; e, infine, pacifico e disarmato in un universo segnato dal ricorso crescente alla violenza e alla guerra.

Un paese fragile. E aperto. Al punto di diventare il luogo deputato di tutti i possibili conflitti per procura che avrebbero segnato il Medio oriente nei decenni a venire.

Così stando le cose la preservazione dell’identità e del “modo di vita” del paese era legata a tre condizioni.

Primo, la disponibilità delle sue “fazioni” a difenderla; anche quando in contrasto con i propri interessi, le proprie visioni ideologiche o i propri collegamenti internazionali.

Secondo, la disponibilità delle varie “potenze esterne” a chiudere le “guerre per procura” da loro scatenate con dei ragionevoli compromessi.

Terzo, la capacità della collettività internazionale (e, in particolare delle potenze occidentali) di governare razionalmente le crisi aperte nella regione,  così da avere, come effetto collaterale per favorire la nascita e/o la difesa delle forze ispirate ai principi della democrazia liberale.

Agli storici di valutare come e in che misura queste condizioni siano state rispettate nei sessant’anni che separano l’indipendenza dalla rivolta vincente contro l’occupazione siriana.

A noi, amici del Libano o semplicemente uomini di buona volontà di constatare come, nell’ultimo decennio esse siano tutte venute meno. A partire dalla dimensione internazionale.

Qui il “combinato disposto” degli interventi occidentali, prima in Iraq e più recentemente in Libia ed in Siria è stato quello di dare il colpo finale sia  alle comunità cristiane d’Oriente sia alle borghesie laiche e magari anche progressiste oppresse dai regimi al potere.

Comunità fiorenti alla fine della prima guerra mondiale e oggi ridotte dalle varie guerre all’ombra di sé stesse; e senza tutele.

“Società civili” da sempre sotto tiro, ma oggi distrutte dal combinato disposto di guerre e sanzioni: guerre e sanzioni che hanno lasciato indenni regimi e capitalismi di relazione e di rapina; facendo precipitare tutti gli altri in un abisso senza sostegni e senza speranze.

Così, quella che era chiamata la “Svizzera del Medio oriente” vive oggi una condizione non dissimile da quella di molti paesi africani o sudamericani. Quella in cui chi ha il potere ha tutto. E chi non ce l’ha, niente. Il che riduce il conflitto ad un conflitto a somma zero. E per l’intera posta. E con tutti i riflessi drammatici del caso.

Ad aggravare la situazione, l’atteggiamento delle potenze regionali: l’Iran e i suoi alleati; e l’asse Arabia saudita /Emirati. Il loro conflitto non vede, almeno per ora, né vincitori né mediazioni; e rappresenta per loro un costo sempre più difficile da sostenere. Meglio, allora, tirare i remi in barca; non sprecare, soprattutto in Libano risorse diventate sempre più scarse. E allora, per evitare che la situazione sfugga di mano, meglio lasciare le cose come stanno: senza governo se necessario; con un governo incapace di agire se possibile.

E i governi libanesi si sono immediatamente adeguati. Quelli che abbiamo avuto non sono stati governi di unità nazionale: ne mancavano i presupposti, dall’”idem sentire” all’eguale dignità delle varie componenti. Ma nemmeno governi di parte, impegnati, comunque, in un qualche disegno di cambiamento. Quelli che abbiamo avuto sono stati dei non governi. Una palude stagnante che può solo generare corruzione e miseria; due facce della stessa medaglia.

E qui veniamo al nostro terzo e fondamentale precetto: ”non usare il Libano per disegni che non abbiano nulla a che fare con la sua identità e i suoi interessi nazionali”. Ed ad Hezbollah.

Da sempre il “partito di Dio rivendica il suo diritto ad essere “stato nello stato”- militarmente, economicamente, socialmente- in nome del suo contributo insindacabile alla difesa del Libano e del suo popolo. Per un certo periodo, questa pretesa qualche fondamento ce l’aveva. Oggi, non più.

Da tempo, infatti, Hezbollah ed Israele hanno costruito un vero e proprio patto di non aggressione di cui lo stato ebraico è occhiuto osservatore e sorvegliante (vedi i suoi continui richiami all’ordine); così da chiudere il ciclo attentati /invasioni. Per il Libano, un’ottima cosa; per Hezbollah la possibilità di trasformare il suo esercito in puro e semplice strumento del proprio potere. Una specie di deterrente a uso interno; un’arma  da brandire contro tutti coloro che intendano rimettere in discussione l’ordine esistente. Così come la presenza di canali  economici e assistenziali privati vale ad impedire qualsiasi rilancio dello stato e del pubblico in questi settori.

Fino alla tragedia del porto di Beirut, questo diritto di veto è stato esercitato con successo. E a tutto danno del Libano e del suo popolo. E nella sostanziale indifferenza del mondo esterno. Da oggi in poi, tutto è rimesso in discussione. E non solo e non tanto perché la catastrofe ha esteso e radicalizzato la protesta popolare contro lo sfascio e il regime. Ma anche e soprattutto perché il Libano è finalmente tornato sugli schermi della collettività internazionale.

Com’è noto la strage non è stata rivendicata da nessuno. Né lo sarà in futuro. E questo era ampiamente prevedibile. Ma il fatto è che non è stata nemmeno usata per puntare il dito contro qualcuno; e questo è sorprendente.

Comprensibile  si diceva, la mancata rivendicazione dell’attentato  da parte dell’unica forza ragionevolmente interessata ad eseguirlo. Se ci fosse stata una comunicazione riservata questa sarebbe, comunque, stata del seguente tenore : ”Io, Israele sapevo da tempo che tu Hezbollah avevi nel porto un grande deposito di armi. Ti ho chiesto di rimuoverlo o di ridimensionarlo. Non l’hai fatto e allora ho dovuto provvedere io. Quello che non prevedevo assolutamente erano gli effetti collaterali. E me ne scuso”. Un discorso ipotetico tra uomini di mondo che nessuno avrebbe interesse a divulgare. Un’ipotesi su cui chi scrive non sarebbe disposto a giurare in tribunale…

Sorprendente, e perciò stesso assai significativo l’impegno, manifestato in diverse circostanze dallo stesso Hezbollah, a non puntare il dito contro il nemico sionista, attenendosi all’ipotesi dell’incidente. Il fatto è che il “puntare il dito” non è più una risorsa politica: non  lo è per Hezbollah che vive e sa di vivere una condizione (come quella vissuta dal fascismo, ritenuto responsabile da parte della gente dei disastri subiti dal popolo italiano durante la seconda guerra mondiale, perché da lui stesso scatenata) in cui tutte le disgrazie che si abbattono sul paese lo vedono come responsabile; non lo è per la collettività internazionale; e non lo è nemmeno per il popolo libanese. Per lui la catastrofe non è che l’ennesima manifestazione dello sfascio; ma anche  come dire un dramma che consentirà, forse, di ripartire.

Lasciato a sé stesso, il paese sarebbe naufragato, stretto com’era tra sottomissione e rivolta senza speranza, tra  sfascio e distruzione definitiva. L’essere oggetto dell’attenzione internazionale può far sì che la via d’uscita sia pacifica.

Se c’è, infatti, una cosa che il disastro ha reso evidente a tutti è che il popolo libanese non può continuare a “pagare i pizzo” al partito di Dio per una protezione che da tempo non esiste più e che lo stesso Hezbollah non può essere un partito libanese e, al tempo stesso, l’alfiere di un disegno internazionale che con gli interessi e la stessa identità del Libano non ha nulla a che fare.

La finestra di opportunità per una soluzione del problema esiste. Tanto più se, come è probabile, gli Stati Uniti torneranno in campo come soggetti interessati ad una via d’uscita ragionevole dal grande disastro mediorientale.

Si può, dunque, essere ragionevolmente ottimisti. Ma anche vigilanti. Tenendo i fari accesi su di un paese che ci appartiene. E che non si può più lasciare abbandonato a se stesso.

Alberto Benzoni

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