(Roma, 17 ottobre 2025). Due ore e mezza di telefonata per darsi appuntamento per un secondo summit, che questa volta si svolgerà a Budapest. Questa la conclusione sostanziale della lunga conversazione che Donald Trump e Vladimir Putin hanno avuto nel tardo pomeriggio. Ed è una conclusione non da poco. Intanto dimostra che, a dispetto di tante dichiarazioni roboanti e persino minacciose, una linea di comunicazione tra Mosca e Washington è sempre rimasta aperta dopo il summit di Anchorage. I segnali in questo senso erano stati molti e non ci stupiremmo se un ruolo di messaggero fosse stato svolto da Aleksandr Lukashenko, il pittoresco autocrate bielorusso protagonista di una love story politica con Trump che dura da tempo (compresa una zuccherosa lettera di buon compleanno inviata da Trump) ed è culminata nei giorni scorsi in una proposta di Lukashenko per “un accordo di vasta portata” tra Bielorussia e Usa.
Di conseguenza, tutto questo vuol dire che l’ipotesi di una conclusione negoziata alla guerra in Ucraina non è ancora stata cancellata dalle agende di Cremlino e Casa Bianca. Trump vuole, assolutamente vuole un cessate il fuoco in Ucraina. Per appuntarsi un’altra medaglia sul petto dopo le tante (da Armenia-Azerbaigian a Gaza e chissà quali altre) che pensa di meritare. Per cercare di incunearsi nel rapporto tra Russia e Cina (non è un caso che anche in questa telefonata abbia esaltato i “fantastici affari” che Russia e Usa potrebbero fare una volta raggiunta la pace) e quindi dedicarsi al confronto con Pechino. Per mettere a tacere il vociare scomposto dei neocon di casa, alla cui fronda sta probabilmente gettando in pasto il Venezuela. Per ribadire la leadership Usa sul resto del fronte occidentale. E anche per la pura e semplice convinzione che la pace sia migliore e più conveniente della guerra.
Anche Putin è palesemente interessato a un negoziato. E anche lui per diverse ragioni. Intanto la situazione sul terreno. È vero che l’impegno combinato dell’esercito ucraino (fin da prima di questa guerra il più potente d’Europa, con i suoi 250 mila uomini addestrati alle tattiche Nato), degli arsenali dell’intero mondo occidentale, delle casseforti di decine di Governi, delle intelligence occidentali più smagate e potenti, a partire da quelle Usa e del Regno Unito, non è riuscito a piegare la Russia. Ma è altrettanto vero che quell’impegno sta impedendo alla Russia di dare la spallata decisiva: le truppe russe non sono riuscite a conquistare Odessa, chiave al controllo del Mar Nero, e allo stesso modo non riescono tuttora a mettere sotto controllo l’intero Donbass, visto che sfugge loro circa il 20% della regione di Donetsk, porzioni più ampie di quelle di Kherson e Zaporizhzhia, mentre hanno le mani sulla Crimea e sulla regione di Luhansk. Putin può continuare a bombardare, notte dopo notte, le centrali elettriche e le infrastrutture dell’Ucraina per lasciare gli ucraini al buio e al freddo, ma per quanto dovrebbe andare avanti? Nel frattempo, certe alleanze strategiche potrebbero anche cedere. Non quella con la Cina, ma che dire della Turchia o dell’India, acquirenti fondamentali del gas e del petrolio russo ?
Non sarà l’Europa a salvare l’Ucraina
A Budapest, quindi, dov’è fissato il prossimo summit tra Putin e Trump. Il quale, domani, vedrà Volodymyr Zelensky, che probabilmente dovrà incassare notizie a lui non troppo gradite. Di certo non sembrano in arrivo i missili Tomahawk con cui l’Ucraina sperava di stressare ulteriormente l’affaticato sistema russo di raffinazione del petrolio, già oggetto di tanti attacchi. Ma se il presidente ucraino ha conservato la sua lucidità, avrà ora capito che non sarà l’Europa, divisa su tutto ma unita nell’idea del riarmo per salvare la propria economia, a salvare l’Ucraina. Per capirlo basta seguire la discussione sulla possibile confisca dei circa 250 miliardi di beni russi congelati in Europa per finanziare la resistenza ucraina, tra gli intransigenti che vogliono procedere e i prudenti che temono, di fronte a un simile esproprio, la fuga degli investitori internazionali.
Non solo. L’Ukraine Support Tracker del Kiel Institute ci dice che, a dispetto delle più recenti iniziative Nato, l’aiuto militare all’Ucraina da parte degli europei è crollato del 57% nella seconda metà dell’anno rispetto alla prima metà, e quello generale del 43%. In poche parole: se non si arriva a confiscare i soldi russi sarà difficile andare avanti. E più la guerra va avanti, maggiore sarà il numero degli ucraini rifugiati in Europa (6 milioni) che non torneranno in patria. Gli ultimi sondaggi già ora parlando meno della metà intenzionati a rientrare. E da quando il Parlamento di Kiev, qualche mese fa, ha approvato la legge che permette agli uomini tra i 18 e i 22 anni di espatriare (cosa prima vietata dai 18 ai 60 anni), le domande di asilo di ucraini in Germania sono decuplicate.
Ha ragione Trump: è più che arrivata l’ora di fermare questa guerra. Come a Gaza, l’imperativo è interrompere il massacro. Per il resto, che è tanta roba, ci sarà tempo dopo. Si mettano il cuore in pace i guerrafondai di ogni risma, i teorici dello “spezzeremo le reni alla Russia”. Dispiace che questo possa avvenire alla maniera della guerra fredda, con i potentati che si accordano e l’intendenza che segue. Ma l’Europa non si lamenti se fa la comparsa: è esattamente il ruolo che si è scelta.
Di Fulvio Scaglione. (Inside Over)