(Roma, 15 settembre 2025). Il “gran rifiuto” di David Barnea, ultimo adulto rimasto negli apparati securitari israeliani, ha condizionato la strategia di Israele contro Hamas e lo svolgimento del clamoroso raid in Qatar del 10 settembre scorso. Lo sfilamento del Mossad, punta di lancia dello Stato Ebraico, dall’operare contro i negoziatori dell’organizzazione che governa Gaza nel territorio di uno Stato neutrale e mediatore, ha messo in moto la catena di eventi che ha portato al coinvolgimento di Shin Bet e Israel Defense Force, al roboante attacco aereo contro Doha e all’emersione di una serie di fratture critiche tra Tel Aviv e molti alleati.
Il Mossad non ha partecipato all’attacco a Doha
Abbiamo parlato degli scenari che orientavano un possibile distacco tra Barnea e il primo ministro Benjamin Netanyahu, legati alla volontà del capo del governo di rafforzare la sua presa sull’intelligence, e ipotizzato che la mancata presenza del Mossad nell’attacco a Hamas rivelasse una diversa postura strategica e diplomatica dell’organizzazione di Ramat HaSharon rispetto a quella dell’esecutivo.
Barnea, del resto, ha da lungo tempo coltivato floride relazioni diplomatiche con il Qatar e il resto del Golfo, alimentate dagli Accordi di Abramo prima e dal negoziato con lo stesso Qatar e l’Egitto per mediare con Hamas sulla liberazione degli ostaggi israeliani poi. Le rivelazioni degli ultimi giorni puntano verso questo scenario. Il Washington Post ha segnalato che funzionari del Mossad hanno raccolto materiali e informazioni per organizzare un assassinio mirato di alcuni big di Hamas mentre si trovavano a Doha, salvo poi vedere l’operazione fermata da Barnea.
Gulf News, invece, ha segnalato i motivi del rifiuto: “L’agenzia ha ritenuto che
l’uccisione dei leader di Hamas in esilio in Qatar non solo avrebbe messo a repentaglio le trattative in corso per la liberazione degli ostaggi, ma avrebbe anche danneggiato i suoi delicati rapporti con Doha”.
Perché Barnea tira il freno
Non è pacifismo ma pragmatismo. Barnea e i suoi non hanno mancato di compiere operazioni ad ampio raggio in questa lunga crisi mediorientale scoppiata nell’ottobre 2023. A settembre 2024 hanno prima lanciato la grande operazione dei cercapersone esplosivi contro Hezbollah e poi individuato e contribuito a colpire, eliminandolo, il segretario generale del Partito di Dio Hassan Nasrallah. A dicembre il Mossad ha operato congiuntamente con l’Idf per individuare e eliminare le difese aeree siriane dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad. A giugno, poi, è arrivata l’infiltrazione nel cuore del territorio iraniano, con tanto di filmati diffusi che mostravano operativi del servizio segreto agire nella Repubblica Islamica per colpire con droni e sabotaggi batterie antiaeree, basi militari, centri di comunicazione.
Tutte queste strategie, per il Mossad, sono state unite dal filo rosso dell’accrescimento della sicurezza di Israele. Non è una questione di sostegno alla figura di Netanyahu, ma di lealtà di fondo alla missione dell’agenzia più nota dello spionaggio di Tel Aviv: colpire i nemici di Israele al fine di garantire stabilità e supremazia dello Stato Ebraico, in una logica pensata narrativamente come “difensiva”. Dove la difesa, spesso, per Israele coincide con il varo di guerre preventive, ovviamente. Ma la logica è chiara e si fonda sul rifiuto della creazione di rischi o danni inutili, come quelli emersi per effetto del raid a Doha. Un ragionamento simile ai dubbi di molti vertici dell’Idf per l’operazione di terra volta a occupare Gaza.
La diplomazia del Mossad
Inoltre, in prospettiva non si può non pensare che il Mossad abbia mostrato reticenze a proseguire l’operazione-Doha anche in virtù di un’attenta scelta fondata sul calcolo dei costi e dei benefici internazionali. In quanto servizio segreto capace di fare una diplomazia a ampio raggio, quello guidato da Barnea dialoga con tutti i partner del quadrante levantino e ha una forte relazione anche con gli apparati securitari statunitensi.
La frattura Mossad-Shin Bet e l’allontanamento del primo da Netanyahu sono anche un riflesso di un clima internazionale che vede alleanze trasversali di potere, ove il capo del Dipartimento di Stato Marco Rubio sembra essere il principale interlocutore di Tel Aviv, ancor più dello stesso presidente Trump. Nella geografia complessa del potere tra Usa, Israele e Medio Oriente il Mossad fa un gioco a sé, come spesso successo in passato. Ed è indicativo dell’Israele odierna il fatto che sia il vertice del suo dinamico servizio segreto a fare, oggi, esercizio di moderatismo di fronte a un interventismo che mantiene in bilico la strategia e la sicurezza del governo dello Stato Ebraico.
Di Andrea Muratore. (Inside Over)