(Roma, 27 luglio 2024). La potenziale infiltrazione di combattenti dell’Is nel territorio iracheno allarma in particolare le comunità cristiane e yazide, già oggetto di persecuzione dei terroristi tra il 2014 e il 2017
Cresce l’allerta sicurezza in Iraq dopo il rilascio di circa 1.500 detenuti da parte delle Forze democratiche siriane (Fds), coalizione di milizie a maggioranza curda sostenuta dagli Stati Uniti. Lo scorso 17 luglio, l’Amministrazione autonoma della Siria nordorientale ha emesso un’amnistia generale per una serie di crimini, includendo detenuti che non hanno presumibilmente mai preso parte ad attentati o altri spargimenti di sangue. Il provvedimento ha portato immediatamente le forze di sicurezza irachene a mobilitarsi, in particolar modo nei governatorati nord-occidentali di Anbar e Ninive, che confinano con il territorio siriano. Rapporti dell’intelligence irachena ripresi dalla stampa araba stimano infatti che tra i detenuti rilasciati in Siria figurano anche “più di 400 terroristi dello Stato islamico (Is)”.
La potenziale infiltrazione di combattenti dell’Is nel territorio iracheno allarma in particolare le comunità cristiane e yazide, già oggetto di persecuzione dei terroristi tra il 2014 e il 2017. Il timore è che i combattenti dell’Is tornati in libertà possano andare a rafforzare le cellule dormienti in Iraq. A preoccupare è soprattutto l’area montuosa del Sinjar che si estende tra i territori di Siria e Iraq, in cui sono presenti ampi tunnel già utilizzati dalle reti di contrabbando di armi, sigarette e valuta contraffatta, nonché per il traffico di droga. Un funzionario della sicurezza irachena ha affermato ad “Agenzia Nova” che gli Stati Uniti hanno dato il loro via libera al rilascio dei prigionieri con il fine di riaffermare la loro presenza militare in Iraq, nell’ambito della Coalizione internazionale contro lo Stato islamico, guidata da Washington. Dall’inizio dell’anno, sono infatti in corso colloqui tra l’Iraq e gli Stati Uniti per porre fine gradualmente alla missione. Nell’ambito della Coalizione internazionale contro lo Stato islamico, l’Iraq ospita oggi ancora circa 2.500 militari statunitensi, insieme a centinaia di militari provenienti da altri paesi, per lo più europei. Questa settimana, a Washington si è tenuto un nuovo ciclo del dialogo congiunto Usa-Iraq sulla cooperazione per la sicurezza, dopo le precedenti tre riunioni di febbraio, marzo e aprile. All’inizio dell’anno, era stata istituita una commissione militare congiunta di alto livello costituita da tre sottocomitati con l’obiettivo di valutare l’attuale minaccia dell’Is e la capacità delle forze di sicurezza irachene.
La necessità dell’Iraq di porre gradualmente fine alla missione della Coalizione è emersa a seguito dei bombardamenti statunitensi contro le milizie filo-iraniane responsabili degli attacchi contro le basi Usa al confine siriano-iracheno, dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo il governo di Baghdad, la missione è diventata nel corso del tempo soprattutto un “fattore di instabilità”. Nel contesto della guerra tra le forze di Israele e il movimento islamista palestinese Hamas, la cosiddetta Resistenza islamica in Iraq – il cui marchio è apparso su Telegram lo scorso ottobre e che comprende diverse milizie armate sostenute dall’Iran, come Kataib Hezbollah al Nujaba, Asaib Ahl al Haq e Kataib Sayyid al Shuhada – ha iniziato a lanciare attacchi nei confronti di obiettivi statunitensi.
Alla fine dello scorso gennaio, la Resistenza islamica irachena aveva rivendicato un attacco con droni che aveva colpito una base Usa al confine tra la Siria e la Giordania e che era costato la vita a tre militari statunitensi. In risposta, Washington aveva lanciato nei giorni successivi un raid aereo colpendo oltre 85 obiettivi dei pasdaran iraniani e delle milizie affiliate in Iraq e in Siria. Gli attacchi della Resistenza islamica in Iraq contro gli obiettivi statunitensi sul territorio sono poi cessati. Le milizie sotto l’ombrello dell’Iran avevano annunciato la fine delle loro operazioni a febbraio, spiegando di non voler “mettere in imbarazzo il governo” iracheno e iniziando così una fase difensiva “temporaneamente passiva”, in attesa che l’esecutivo di Baghdad concordasse il ritiro definitivo delle truppe Usa.
Lo Stato islamico, dopo aver preso il controllo di vaste aree in Iraq e Siria nel 2014, ha subito nel corso dei successivi anni ingenti sconfitte, fino alla perdita nel 2017 di tutte le più importanti aree conquistate nei due paesi. Sebbene le capacità militari dell’Is siano state ridotte, secondo un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite l’organizzazione terroristica continua a rappresentare una minaccia, operando a bassa intensità sia in Iraq che in Siria. Ad oggi le attività dell’Is sono meno frequenti nei centri urbani e sono limitate prevalentemente alle zone rurali, in cui sono ancora basate piccole cellule, anche “dormienti”.
Stando a quanto reso noto la scorsa settimana dal Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom), nei primi sei mesi del 2024 lo Stato islamico ha rivendicato 153 attacchi in Iraq e Siria. Secondo il Centcom, l’andamento testimonia che i miliziani del califfato “stanno tentando di ricostituirsi dopo anni di ridotta capacità”. Nell’ambito del contrasto allo Stato islamico, il Centcom, insieme ai partner e alle forze di sicurezza irachene e quelle democratiche siriane, ha condotto nella prima metà dell’anno 196 missioni che hanno provocato la morte di 44 miliziani e hanno portato all’arresto di 166 terroristi. In Iraq, in 137 operazioni congiunte sono stati uccisi 30 miliziani dell’Is e 74 sono stati arrestati. In Siria, 59 operazioni condotte insieme alle Fds e ad altri partner hanno provocato la morte di 14 combattenti dell’Is e all’arresto di 92.