(Roma, 24 maggio 2024). Le priorità di Stati Uniti e Cina in Medio Oriente sono contrastanti. Se è vero che le due potenze globali vorrebbero rendere la regione un’oasi di pace e stabilità, o almeno un ambiente proficuo per le rispettive agende politiche ed economiche, è altrettanto vero che le modalità proposte da entrambe le parti per conseguire questo scopo differiscono e non poco.
Da un lato abbiamo Washington, che ha fin qui cercato di rafforzare i suoi legami con Israele e le monarchie del Golfo, in modo tale da avviare un progressivo disgelo tra Tel Aviv e Riyad. Dall’altro c’è invece Pechino, che scommette tutto sulla mediazione tra Iran e Arabia Saudita, e punta sul rinnovato rapporto tra Xi Jinping e Mohammed bin Salman.
Quando, lo scorso aprile, la tensione tra Tel Aviv e Teheran aveva raggiunto il limite, i funzionari cinesi avevano del resto subito preso in mano i loro telefoni per contattare i loro omologhi sauditi e iraniani. Il motivo di tanto interesse? Verificare se le scintille israelo-iraniane fossero in qualche modo riuscite a scalfire uno dei principali successi diplomatici del Dragone: il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita. È tuttavia difficile per Pechino disegnare un quadro regionale, o anche solo immaginare le prospettive per il Medio Oriente a medio termine, con due incognite sul tavolo: un conflitto – quello nella Striscia di Gaza – ancora in corso e l’eventualità che quella guerra possa allargarsi fino ad includere attivamente altri Paesi.
Il deus ex machina del Medio Oriente
La diplomazia cinese lascia intendere che esistano almeno due progetti in corso: il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, sostenuto da Pechino, e la normalizzazione delle relazioni tra sauditi e Israele perseguito dagli Stati Uniti.
Per quanto riguarda la Cina, il Dragone si affida al partenariato stretto con Teheran che, a lungo termine – e date le vaste risorse energetiche iraniane – potrebbe rivelarsi una scommessa vincente. Di pari passo il governo cinese ha messo in secondo piano le mire strategiche su Emirati Arabi e Qatar, entrati invece nell’orbita americana, così come Israele (al netto delle frizioni su Gaza).
I riflettori sono dunque puntati sull’Arabia Saudita, possibile deus ex machina del Medio Oriente nonché unico vero giocatore altalenante. Riyad cederà alle lusinghe di Xi oppure accetterà di sedersi al tavolo degli Usa (con i quali mantiene stretti legami di Difesa).
Ci sono almeno due indizi da non sottovalutare: 1) come accade con l’Iran, la Cina è di gran lunga il più grande mercato di esportazione dei sauditi; 2) quando Israele ha colpito l’ambasciata iraniana a Damasco, l’Arabia Saudita ha condannato pubblicamente l’attacco. Dopo la risposta iraniana, il Regno si è limitato ad esprimere preoccupazione per l’escalation chiedendo moderazione. In entrambi i casi, la posizione di MBS coincide con quella di Xi. Ed è molto lontana da quella americana che sostiene Israele.
La base di Al Udeid in Qatar
Se Pechino guarda con estremo interesse all’Arabia Saudita, gli Usa oltre che su Riyad puntano molto anche su Doha. Il perché è presto detto: il Qatar si trova al centro del Golfo Persico, le sue acque sono condivise con l’Iran e dunque il posizionamento geografico del piccolo emirato appare intrinsecamente strategico.
Non è certo un caso se nell’area meridionale della penisola qatariota sia da anni situata la base di Al Udeid. Si tratta di uno degli avamposti militari più importanti degli Stati Uniti, recentemente raggiunto da lavori legati a progetti di un ulteriore allargamento della struttura. Qui, tra le altre cose, ha sede il Centcom, ossia il comando centrale Usa nel medio oriente: non c’è scelta che non passi dagli uffici della grande base stanziata a sud di Doha.
Una circostanza destinata a legare a tempo indeterminato il Qatar con gli Stati Uniti. La (petro)monarchia retta dalla famiglia Al Thani è una pedina fondamentale per Washington nel Medio Oriente. Lo dimostrano gli scambi commerciali aumentati specialmente dopo il 2021, anno della fine dell’embargo imposto dai Saud contro Doha nell’ambito dello scontro politico tutto interno alla penisola arabica.
In quell’anno inoltre è arrivato alla Casa Bianca l’attuale presidente Joe Biden, il quale ha iniziato una politica differente rispetto al predecessore Donald Trump. Quest’ultimo, nei suoi quattro anni di amministrazione, ha puntato molto soprattutto sull’Arabia Saudita nell’ottica di un riavvicinamento tra gli attori del Golfo e Israele.
Biden ha lavorato per rendere Doha sempre più importante e per fare dell’emirato un mediatore fondamentale per gli equilibri della regione. La dimostrazione più pratica arriva dai recenti e drammatici fatti relativi alla guerra tra Hamas e Israele. Il Qatar ha iniziato già dall’inizio della crisi, avviata con gli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023, a mediare tra le parti e a svolgere così un ruolo importante anche per le attività diplomatiche Usa nella regione.
In generale, è possibile osservare come negli ultimi anni, nonostante i Saud abbiano conservato il ruolo di principale alleati di Washington in medio oriente, la Casa Bianca si sia avvicinata sempre di più al Qatar e abbia iniziato a vedere negli Al Thani una pedina molto utile nell’ottica del braccio di ferro regionale con Pechino.
Il ruolo politico degli Emirati
L’altra pedina per gli Usa è senza dubbio rappresentata da Abu Dhabi, perno già durante l’amministrazione Trump della strategia volta a riavvicinare i Paesi del Golfo con Israele. Nell’ottica di un duello con la Cina, gli Emirati Arabi Uniti appaiono più vicini a Washington rispetto a Pechino. I rapporti tra le parti continuano del resto a essere molto solidi, non solo in ambito politico bensì anche sotto il profilo economico.
Tuttavia, proprio il caso emiratino è emblematico dell’attuale situazione regionale: non esistono cioè blocchi perfettamente contrapposti. Abu Dhabi ha sì solidi legami con la Casa Bianca, ma sta sviluppando da anni importanti rapporti con la stessa Cina. Anche in ambiti piuttosto delicati come, tra tutti, quelli militari. In Libia ad esempio, i droni girati dagli Emirati al generale Khalifa Haftar hanno marchio e bandiera cinese.
Di Federico Giuliani, Mauro Indelicato. (Inside Over)