Nuova Caledonia : perché la Francia accusa Azerbaijan e Turchia

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(Roma, 23 maggio 2024). La Francia percepisce l’assedio politico di Azerbaijan e Turchia in Nuova Caledonia ? Parigi e i suoi servizi segreti hanno da diverse settimane messo in guardia circa la presenza di una “manina” estera nel fomentare le proteste che stanno agitando la collettività d’oltremare del Pacifico, strategica per le corpose risorse di nichel e per la proiezione oceanica dell’Esagono.

La mano azera (e turca) dietro le proteste nella periferia della Francia globale

Hanno fatto scalpore le bandiere azere comparse a Noumea nella protesta dell’etnia kanaki, seguita alla modifica dei diritti di voto da parte dell’Assemblea Nazionale di Parigi, che ha rinfocolato il sentimento indipendentista neocaledoniano già messo alla prova in tre referendum (2018, 2020, 2021) che hanno confermato i legami con Parigi.

Il tema è la questione geopolitica, chiara, della centralizzazione delle periferie. Oggi divenuta una chiave di lettura della geopolitica globale. A cui si aggiunge la questione della conflittualità ibrida, dalle guerre cognitive a quelle propagandistiche, che interessa molti scenari politici e diplomatici planetari. Gerard Darmanin, ministro degli Interni transalpino, lo ha esplicitato: la Francia ipotizza che Baku possa aver fomentato le proteste in risposta alle scelte transalpine sull’Armenia e il Nagorno-Karabakh, aggrediti l’autunno scorso da Baku mentre Parigi sosteneva una soluzione negoziata e la fine dell’arbitrio della dittatura di Ilham Alyiev sulla regione contesa.

Dal Caucaso alla Nuova Caledonia, “guerra ibrida” senza limiti

Scenari, questi, che si inseriscono nella più ampia conflittualità a tutto campo tra Turchia e Francia per varie zone d’influenza: Baku è accusata perché vista come la longa manus di una Turchia alleata della Francia nella Nato ma a essa intrinsecamente rivale. In uno scenario competitivo in cui dal Caucaso si arriva al Niger, dove l’arrivo di milizie turche al posto dei soldati francesi è dato per plausibile, si passa per il Corno d’Africa, ove la proiezione di Ankara è crescente, e ovviamente tutto culmina nei Balcani, in cui la penetrazione turca confligge con quella europea a trazione franco-tedesca per attrarre verso Bruxelles gli Stati in bilico non membri dell’Unione Europea, segnatamente Albania, Bosnia-Erzegovina e Serbia. Tanto che l’emittente francese Europe 1 è arrivata a paventare esplicitamente il sostegno turco alle mosse destabilizzanti azere.

In quest’ottica la conflittualità politica si può scaricare in vario modo. Eurasianet ricorda come l’attenzione azera sulle manovre neocaledoniane sia tutt’altro che nascosta: “il rancore dell’Azerbaigian per le  relazioni speciali franco-armene ha iniziato a ribollire nel 2023, durante la riconquista del Karabakh da parte di Baku. Il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ha cercato di escludere la Francia dal processo di pace in corso nel Karabakh . Ha anche cercato di condizionare la Francia in altri modi: denunciando quello che ha descritto come  neocolonialismo francese e incoraggiando la creazione del “Gruppo di iniziativa di Baku contro il colonialismo francese”. Il gruppo ha organizzato una conferenza in Turchia a febbraio, intitolata  Decolonization: Awakening of the Renaissance , alla quale hanno partecipato politici dei territori francesi”.

In quest’ottica, dal punto di vista di Baku e Ankara palesare l’attenzione per uno scenario e al contempo negare, come avviene, ogni ruolo equivale a un doppio bluff politico volto a condizionare Parigi, a proiettare potenza diplomatica e informativa, a ricordare nell’esplicita ammissione degli obiettivi politici come la moderna guerra ibrida si possa combattere, anche tra alleati, alla luce del sole, a colpi di dichiarazioni e manovre di disturbo. Come se la logica della conflittualità fosse ormai sdoganata, anche tra Paesi che è improbabile ipotizzare possano arrivare a un confronto diretto sulla base di scontri in teatri oggettivamente minori.

Periferie al centro

Il dato strategico da osservare è sul tema della centralizzazione delle periferie e della possibilità di una destabilizzazione a tutto campo di contesti critici anche ad opera di attori regionali o locali a grande distanza dal proprio territorio, col dovuto potenziale di intelligence, influenza e potere economico. Tra le capitali rivali dell’Occidente, in particolare Mosca e Pechino, ci sarà chi avrà preso appunti in questa fase in cui ogni periferia, come già nel 2022 scriveva con acume Emanuel Pietrobon su queste colonne, può esser trasformata in centro di un confronto destabilizzante. Vale per le manovre del blocco euroatlantico contro i suoi avversari (si pensi al tema dei diritti umani nella provincia cinese dello Xinjiang, periferia della periferia, usata come arma politica), vale anche sul fronte opposto.

Nei casi più radicali, notava Pietrobon, non fa differenza “che a destabilizzare una periferia sia il ponente oppure il levante, il fine è sempre il medesimo: si incendia l’edificio per inviare un monito all’intero quartiere, talvolta nella speranza-aspettativa che le fiamme avvolgano l’intero isolato”. In altri momenti “si appicca un rogo in cortile per costringere gli inquilini a uscire di casa, approfittando della loro distrazione per compiere azioni a sorpresa in perimetri lasciati senza guarnigione”. O per distrarre da altri teatri. In questo caso, fuor di metafora, costringere la Francia a guardare alla Nuova Caledonia significa ridurre la sua attenzione sull’Armenia (teatro d’interesse di Baku) o l’estero vicino turco (su cui Ankara si proietta). E mandare un messaggio circa la possibilità di ulteriori avventurismi geopolitici in zone di confronto: Parigi troverà rivali capaci di muoversi per colpirla ai fianchi. Ovvero alle periferie. Tutto alla luce del sole. Ma negando alla prova dei fatti.

Di Andrea Muratore. (Inside Over)