Un conflitto tra Mosca e Pechino ? Possibile. Ecco le simulazioni

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L?ultimo rapporto del dipartimento della Difesa Usa sugli sviluppi militari della Cina ha portato buone e cattive notizie all'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il documento, pubblicato nel fine settimana e destinato al Congresso, fotografa la situazione delle forze armate della Repubblica popolare a pochi mesi dalla scadenza del primo mandato del presidente Trump e in un anno considerato cruciale per il processo di modernizzazione della Cina, che il Partito comunista vuole trasformare in una ?società moderatamente prospera? entro il 2021, anno del suo centenario. Tra le buone notizie vi è l?attuale stato delle capacità nucleari della Cina: secondo i ricercatori del Pentagono, la Repubblica popolare può attualmente contare su meno di 200 testate. Stime basate su fonti aperte ritenevano in precedenza che la Cina avesse circa 300 testate nucleari. Si tratta di una cifra nettamente inferiore a quella degli Stati Uniti, il cui arsenale oggi conta circa 4 mila testate. Tuttavia, il rapporto conferma che l?obiettivo di Pechino è di raddoppiare le proprie capacità nucleari entro il 2030, in particolare attraverso lo sviluppo in cinque anni di circa 200 missili balistici intercontinentali in grado di colpire il territorio degli Stati Uniti. ?La Repubblica popolare cinese sta espandendo il suo inventario di missili balistici multi-ruolo Df-26, in grado di montare rapidamente testate convenzionali o nucleari?, si legge nel documento, che ricorda anche ?la crescita delle capacità missilistiche aeree e navali? di Pechino. Secondo la rivista Usa ?National Interest?, quel che gli Stati Uniti devono osservare è un cambio di paradigma della Cina rispetto al proprio arsenale nucleare. Pechino, infatti, sta progressivamente espandendo il numero di missili nucleari in siti di lancio stazionari, che sono più vulnerabili agli attacchi rispetto a quelli installati su lanciatori mobili o su sottomarini. Tuttavia, tale dato sembra riflettere l?intenzione della Cina di passare a un sistema di ?lancio al primo allarme?. La Repubblica popolare, si legge nel rapporto, non sposterebbe le sue testate in siti statici se non avesse fiducia nella propria capacità di anticipare un attacco del nemico e nel miglioramento dei propri sistemi di prima allerta. Vi è un altro dato importante messo in luce dal Brookings Institute. Attualmente, la Repubblica popolare cinese dispone di oltre 1.250 missili balistici e da crociera convenzionali con lancio da terra e con gittata tra i 500 e i 5.500 chilometri. Gli Stati Uniti, da parte loro, rispondono con un tipo di missile balistico con lancio da terra (Glbm) con gittata tra i 70 e i 300 chilometri. ?La minaccia verso gli interessi Usa nel Pacifico occidentale da questo tipo di sistema d?arma cinese è cresciuta enormemente negli ultimi tempi?, riflette il centro studi. Dopo aver affossato il Trattato sul controllo degli armamenti nucleari a medio raggio (Inf) con la Russia, gli Stati Uniti potrebbero essere tentati dal realizzare nuovi missili a medio raggio da dispiegare nel Pacifico (di recente, nella regione è stato in visita il segretario alla Difesa Mark Esper). Tuttavia, gli Usa sono in grado di colpire i siti di lancio cinesi anche attraverso gli aerei militari con capacità stealth e potrebbero anche accettare lo svantaggio maturato verso Pechino in materia di missili balistici. Sono però soprattutto le capacità convenzionali della Cina a preoccupare Washington. Nel 2017 il presidente cinese Xi Jinping aveva affidato due importanti obiettivi ai vertici dell?Esercito popolare di liberazione (Pla): completare entro il 2035 il proprio processo di ammodernamento e trasformarsi entro la metà del secolo in una forza militare ?di classe mondiale?. Si tratta di una formulazione piuttosto vaga, ma su entrambi gli obiettivi le forze armate cinesi appaiono perfettamente in carreggiata. Sul piano numerico, l?Esercito popolare di liberazione dispone delle maggiori forze terrestri e navali al mondo. Il rapporto del Pentagono scrive che nel corso del 2019 il Pla ha portato avanti il suo processo di transizione in un esercito ?moderno, mobile e letale?, integrando sistemi di combattimento aggiornati e tecnologie di comunicazione e sviluppando la capacità di condurre complesse operazioni combinate tra i suoi corpi d?armata. Stesso percorso è seguito dalla più grande Marina militare al mondo, una forza ?sempre più moderna e flessibile? che negli ultimi mesi si è concentrata sulla ?sostituzione delle precedenti generazioni di piattaforme dalle limitate capacità con unità più grandi, più moderne e multi-ruolo?. Nel contempo è in corso un ?solido programma di costruzione e modernizzazione che include sottomarini, unità di superficie, navi da guerra anfibie, portaerei, navi ausiliarie e armi avanzate, sensori, capacità di comando e controllo?. La Cina sembra invece essere più indietro per quanto riguarda lo sviluppo di capacità aeree. L?Aviazione dell?Esercito popolare di liberazione è la terza al mondo - dopo quella statunitense e della Federazione russa -, con oltre 2.500 aerei, circa 2 mila dei quali da combattimento. L?aeronautica cinese, pur avendo già affermato il proprio primato a livello regionale, cerca di recuperare il gap raccogliendo rapidamente informazioni e competenze sulle forze aeree occidentali. Lo stesso accade con la Forza di sostegno strategica (Ssf) dell?Esercito popolare di liberazione, istituita con l?obiettivo di centralizzare il comando delle operazioni spaziali, informatiche e di guerra elettronica e psicologica. Centrali, in questo senso, sono il dipartimento dei Sistemi di rete dell?Ssf, il cui principale obiettivo sono attualmente gli Stati Uniti, e il dipartimento del Sistema spaziale, responsabile ?di quasi tutte le operazioni spaziali del Pla?. Con il libro bianco della Difesa del 2015, la Repubblica popolare cinese ha ufficialmente designato lo spazio come nuovo territorio di competizione militare e gli Stati Uniti si aspettano che Pechino investa sempre più risorse in tale settore. ?Il programma spaziale della Repubblica popolare cinese continua a progredire rapidamente. Pechino ha destinato notevoli risorse economiche e politiche allo sviluppo di tutti gli aspetti del suo programma, sia nella sua dimensione militare che in quella civile?, si legge nell?ultimo rapporto del Pentagono. Il dipartimento del sistema spaziale opera in almeno otto basi sul territorio nazionale, oltre che in stazioni di comando e tracciamento in Namibia, Pakistan e Argentina. Gli investimenti della Cina nel suo programma spaziale riguardano in particolare le attività d?intelligence, sorveglianza e ricognizione, comunicazione e navigazione satellitare, meteorologia, esplorazione spaziale umana e robotica. Uno degli obiettivi di Pechino è di avere entro il 2022 una stazione spaziale operativa che ospiti personale e tecnologia cinese e straniera. Il dipartimento della Difesa Usa rileva anche che nel 2019 la Cina ha lanciato 34 razzi (32 dei quali con successo) che hanno posizionato in orbita 70 veicoli spaziali. Un altro settore sul quale la Cina punta con insistenza è quello della capacità di risposta rapida delle forze armate. Negli ultimi anni i leader del Partito comunista hanno più volte sollecitato i vertici dell?Esercito popolare di liberazione a consolidare la preparazione dei militari su tale fronte e, secondo il Pentagono, a evidenziare che le indicazioni sono state prontamente percepite sono la frequenza e l?intensità delle esercitazioni condotte dal Pla. Molte delle manovre sono considerate dagli esperti messaggi diretti a Taiwan, isola che Pechino considera la sua 23ma provincia ma che è de facto indipendente dal 1949. Negli ultimi mesi, in particolare dopo la riconferma di Tsai Ing-wen come presidente taiwanese, le tensioni tra le due parti sono cresciute notevolmente, di pari passo con il rafforzamento (criticatissimo da Pechino) delle relazioni politiche, economiche e militari tra Washington e Taipei. Il rapporto del Pentagono evidenzia la sproporzione tra le forze in campo nell?eventualità di un conflitto nello Stretto (ipotesi non remotissima, considerando le frequenti violazioni e minacce delle ultime settimane). Le forze di terra di Pechino, ricorda il dipartimento della Difesa Usa, possono contare su oltre un milione di uomini, 412 mila (quasi la metà) dei quali dispiegati nei teatri meridionali e orientali; le forze di Taiwan non impiegano più di 88 mila uomini in totale. L?Esercito popolare di liberazione ha inoltre a disposizione 15 brigate d?assalto aereo contro due di Taiwan; 15 brigate d?artiglieria contro tre di Taiwan; sette brigate aviotrasportate contro zero di Taiwan; otto brigate di Marina contro tre di Taiwan; 6.300 carri armati contro 800; 6.300 pezzi d?artiglieria contro 1.100. Ancora più evidente è lo squilibrio di forze in mare. La Cina dispone di due portaerei, una delle quali di base tra il Mar cinese orientale e il Mar cinese meridionale, mentre Taiwan non ne possiede. Taipei, a differenza di Pechino, non ha a disposizione neanche incrociatori. La Repubblica popolare ha poi 32 cacciatorpediniere contro quattro, 49 fregate contro 22, 49 corvette contro zero, 37 navi da trasporto anfibio contro 14, sei sottomarini da attacco nucleare contro zero, quattro sottomarini con capacità di lancio di missili balistici contro zero. Infine, le forze aeree: la Cina dispone di almeno 1.500 caccia (600 dei quali dispiegati nei teatri est-sud) contro i 400 di Taiwan e di 400 aerei da trasporto tattico contro 30. Il documento del Pentagono giunge in un momento di massima tensione anche tra Cina e Stati Uniti. Nel corso del 2020 i toni tra le due parti si sono progressivamente inaspriti, con i leader di entrambi i Paesi che oggi parlano apertamente di ?Nuova guerra fredda?. Tante le questioni oggetto di disputa: dall?origine della pandemia di coronavirus alla perdita di autonomia di Hong Kong, passando per le presunte violazioni di diritti umani nello Xinjiang, le relative sanzioni, gli squilibri commerciali, le restrizioni ai movimenti di diplomatici e studenti, la guerra ai colossi della tecnologia. La crescente rivalità tra le due superpotenze ha anche una inevitabile dimensione militare che si articola attorno all?assertività di Pechino nel Mar cinese meridionale. Di recente, attraverso un comunicato del dipartimento di Stato, gli Usa hanno preso nettamente posizione per respingere le rivendicazioni della Cina e per schierarsi dalla parte di altri Paesi della regione ? Taiwan, Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine ? che rifiutano la cosiddetta ?linea a nove tratti? che secondo la Repubblica popolare delimita la sovranità cinese sulle acque. In tale contesto, per Washington seguire con attenzione il processo di modernizzazione militare della Cina appare sempre più importante, e non è un caso se il rapporto di quest?anno del dipartimento della Difesa sia stato più dettagliato e preciso di quelli degli ultimi vent?anni.

(Roma, 29 febbraio 2024). Documenti ufficiali russi mostrano alcune simulazioni di operazioni belliche condotte dalle forze armate di Mosca per difendersi da un’invasione cinese. Un’eventualità che oggi sembra lontana, ma che in passato non lo era affatto

Una campagna ibrida, che trova origine nel verificarsi di sommosse a sfondo etnico, a cui segue l’intervento “ufficioso” di unità militari scelte, prima di un intervento militare su larga scala. Un copione già visto dal 2014 in Ucraina, ma che lo Stato Maggiore russo aveva immaginato ancora prima. A cambiare però è l’ambientazione: i fatti non avvengono in Ucraina orientale, ma nelle pianure del Far East; e le truppe di invasione non sono russe, ma cinesi.

Alcuni dei documenti russi condivisi dal Financial Times (il quale li avrebbe ricevuti da una non meglio definita fonte occidentale) sono relativi ad uno scenario di wargaming tra le forze armate di Mosca e quelle di Pechino nei territori orientali della Federazione. Anche se nei documenti vengono utilizzati nomi di fantasia come “Federazione del Nord” e “Dasinia”, è palese quali attori essi incarnino. Questi documenti, stilati tra il 2008 e il 2014, forniscono importanti insights a livello politico e militare: ad esempio, indicando alcuni criteri precisi che porterebbero ad un impiego di ordigni nucleari da parte di Mosca. Ma anche evidenziando i timori che il Cremlino aveva nei confronti della Repubblica Popolare e della sua intenzione di effettuare manovre belliche ai danni della Federazione.

Timori che hanno un’origine storica: già durante il periodo della guerra fredda i rapporti tra l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese non versavano in condizioni ottimali, arrivando addirittura, nel 1969, a combattere un “conflitto non dichiarato” della durata di sette mesi nella regione della Manciuria (dove i Sovietici avevano peraltro combattuto un conflitto simile con i giapponesi trent’anni prima). E anche all’indomani della caduta dell’Urss, le preoccupazioni della neonata (e fragile) Federazione Russa per un colpo di mano militare di Pechino nelle sue regioni orientali erano tutt’altro che inesistenti.

Una situazione che sembra essersi letteralmente capovolta in seguito all’arrivo al potere del presidente russo Vladimir Putin, promotore di un accordo di amicizia con la Repubblica Popolare firmato nel 2001 che avrebbe fatto da base per un costante riavvicinamento negli anni successivi, riavvicinamento culminato nella dichiarazione di una “partnership” senza limiti pochi giorni prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio del 2022 e nel successivo schiacciamento di Mosca su Pechino, come reazione al tentativo di isolamento economico-diplomatico del Cremlino promosso dall’Occidente.

Tuttavia, i documenti provano che il Cremlino non avesse (giustamente) deciso di dotarsi di piani di contingenza. In alcuni di tali piani si prevede un’offensiva cinese attraverso il Kazakistan, che potrebbe portare a colpire la Siberia occidentale e persino gli Urali. Ma in altri, risalenti al 2008, l’obiettivo finale della forza d’invasione è quello di conquistare l’estremo oriente russo. Vengono evidenziati anche i timori di Mosca per l’esigua diaspora cinese in Russia (meno di ventinovemila individui registrati nel censimento svolto nel 2010), che viene però rappresentata come un esplicito strumento di politica estera di Pechino.

Michael Kofman, senior fellow del think-tank Carnegie ed esperto di Russia, ha ricordato però che la “strada verso la guerra” nelle esercitazioni militari come quelle trattate nei documenti in questione è spesso “artificiosa, progettata per mettere alla prova la forza e preparare l’esercitazione. Non riflettono necessariamente ciò che viene valutato come la minaccia più probabile o realistica”. Ma una minaccia che va comunque considerata come eventuale.

Di Lorenzo Piccioli. (Formiche)