(Roma, 04.11.2023). Il Partito di Dio libanese si tiene fuori dal conflitto. Celebra i martiri, ma niente fronte unico islamico
«Bravi, ma ora arrangiatevi». Il tanto atteso messaggio del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ai «fratelli» palestinesi di Hamas è tutto qua. Un profluvio di slogan, minacce e retorica che copre la paura di venir fatti a pezzi dalla forza congiunta di Israele e Stati Uniti. Un autentico colpo basso alle aspettative di chi a Gaza, e nel mondo islamista, attendeva la discesa in campo del Partito di Dio a fianco dei «fratelli» di Hamas.
Aspettative alimentate dal fatto che il discorso, pronunciato da località e nascondiglio sconosciuti, celebrava i «martiri caduti sulla via di Gerusalemme», ovvero la sessantina di combattenti di Hezbollah caduti dall’8 ottobre a oggi negli scontri al confine tra Libano e Israele. E a rendere più cocente la delusione contribuiscono la paura e l’insicurezza celate in alcuni passaggi del discorso. A cominciare da quello in cui si parla del «diluvio di Al Aqsa», il massacro di israeliani messo a segno da Hamas il 7 ottobre. «La sua decisione e attuazione è solo palestinese… e il fatto che nessuno ne fosse a conoscenza, dimostra che questa battaglia è interamente palestinese» afferma Nasrallah sottolineando che si è trattato di un’«operazione tutta palestinese, segreta e di successo». Ma l’apparente omaggio ad Hamas è un autentico autogol.
L’insistenza con cui Nasrallah ripete che «nessuno sapeva» suona come una presa di distanze dall’operato dei militanti di Hamas e un tentativo di smentire chi attribuisce alla sua milizia il merito di averli addestrati e preparati.
La presa di distanze finisce con il vanificare la credibilità di un discorso in cui, subito dopo, si rilanciano le consuete invettive contro Israele e Stati Uniti: «Non temiamo le vostre flotte… Siamo preparati anche per loro» ripete Nasrallah rivolto a Washington prima di aggiungere che «Israele commetterebbe il più grosso atto di stupidità e follia se attaccasse Hezbollah».
Ma la paura, l’indecisione e l’insicurezza celate tra le righe del discorso non scaturiscono soltanto dalla testa e dalla pancia di un capo di Hezbollah che già nel 2006 si disse pentito di aver dichiarato guerra ad Israele. Nasrallah è da sempre il ventriloquo di calcoli e decisioni prese a Teheran. I primi a rinunciare, tramite lui, al feticcio del «wihdet al-sahat» – il «fronte unico» – sono dunque quegli stessi iraniani che a parole punterebbero sull’alleanza tra Hamas, Hezbollah e le milizie sciite di Irak, Siria e Yemen per stringere Israele in un’insostenibile morsa bellica.
Dietro la rinuncia vi è ragionamento molto semplice. Attaccare Israele tramite gli alleati libanesi significherebbe vedersela non solo con Israele, ma anche con le due squadre navali, guidate dalla portaerei Ford e Eisenhower, mandate da Joe Biden nel Mediterraneo. E questo significherebbe rischiare di perdere per sempre l’avamposto libanese. Un avamposto cruciale per l’Iran che proprio usandolo per minacciare Israele si garantisce il consenso di quanti all’interno delle opinioni pubbliche mediorientali continuano a sognare la distruzione dello stato ebraico.
E proprio quel consenso e la conseguente capacità di destabilizzare i propri vicini regalano a all’Iran il ruolo di potenza regionale. Un ruolo troppo prezioso per comprometterlo nel nome di Hamas.
Di Gian Micalessin. (Il Giornale)