(Roma, 13 septembre 2022). La guerra in Ucraina e la leadership di Vladimir Putin vivono un percorso direttamente proporzionale. La vittoria militare equivale a una vittoria politica, al consolidamento dell’autorità del presidente e al conseguente silenzio di un’opposizione interna fatta contemporaneamente di falchi e “colombe”. La sconfitta sul campo, invece, per il Cremlino sarebbe il punto di non ritorno non solo per la lunga stagione di potere di Putin ma forse anche della stessa Federazione Russa per come le intendiamo oggi. Eventualità opposte ma legate di un filo conduttore: la personalizzazione del conflitto da parte dello stesso “zar”. Questa è la sua guerra, o meglio, la sua “operazione militare speciale”, e questo rende il conflitto un problema politico sia individuale che sistemico. Finora a ruotare sono stati i comandanti in campo, a essere silurati, gli uomini che potevano essere messi al bando per le mancate vittorie. Ma la perdita del conflitto – qualora assumesse le caratteristiche di una debacle – verrebbe addebitata al presidente russo.
Con la più recente ritirata dal fronte orientale ucraino dopo la controffensiva dell’esercito di Kiev, è pertanto naturale che si torni a parlare della leadership di Putin. Fino a questo momento la Russia ha cercato di vivere come se nulla stesse accadendo dall’altra parte del confine, nascondendo la realtà dell’invasione sotto una coltre di apparente normalità e con un sistema mediatico e politico ben saldo nel sostenere la scelta di scatenare il conflitto. La propaganda faceva il proprio corso e l’immagine che scaturiva dal Cremlino era quella di un’autorità che non negava l’esistenza di una guerra, ma certamente ne sapeva gestire le conseguenze sia sul piano militare che economico e politico. Lo stesso Putin ha parlato proprio nelle ultime ore di una “guerra lampo economica” dell’Occidente che non era riuscita a danneggiare la Russia, mentre dal Cremlino è stato il portavoce Dimitry Peskov a sottolineare il fatto che il presidente fosse pienamente consapevole dei movimenti in Ucraina e in particolare del “riposizionamento”, come viene chiamata la ritirata, verso il Donbass.
La controffensiva ucraina nella regione di Karkiv ha bucato però la fitta rete di sicurezza intorno all’opinione pubblica russa. Tra critiche interne al sistema di potere (Razman Kadyrov in primis), siluramenti di generali, morti sospette, lettere di consiglieri per chiedere le dimissioni di Putin (da Mosca e San Pietroburgo) e trasmissioni televisive in cui si mostrano dubbi sull’andamento della guerra, l’impressione è che questa ritirata di settembre – per quanto minimizzata dal circuito di Putin – venga letta in modo ben diverso rispetto alle precedenti sconfitte o fasi di immobilismo. E questo, unito al fisiologico dispiegarsi degli effetti delle sanzioni, può avere un peso rilevante nella politica russa e nella leadership del presidente. La situazione non indica una sconfitta generalizzata da parte delle truppe russe: l’avanzata delle forze ucraine non può ancora definirsi una situazione cristallizzata e certa. Tuttavia, la mossa di Kiev ha spezzato una sorta di “incantesimo” collettivo costruito in questi mesi da parte di Mosca, e specialmente nelle settimane estive in cu tra crisi del grano e del gas, era Putin ad apparire come il vero “dominus” di questa fase di guerra di “trincea”.
Finora il capo del Cremlino ha reagito allo stallo in Ucraina attraverso due binari: sul campo, con il cambio dei comandanti delle operazioni; a livello diplomatico, con l’utilizzo del gas (e in parte dei cereali) come arma per convincere gli europei e la Nato a scendere a compromessi. Il primo, un vero e proprio valzer di alti ufficiali rimossi per accuse di incapacità o per morte e ferimento, continua ancora oggi. Il secondo, cioè l’uso di leve negoziali con i partner europei, è invece ora l’unica vera arma con cui Mosca può agire su base internazionale.
Ma questi due metodi non sembrano avere smosso molto, e anzi lo stallo alimenta una frustrazione che non sembra necessariamente portare a un cambio di passo in chiave di accordo con le controparti. I siloviki hanno resistito in parte alle varie “purghe” e anzi, soprattutto i falchi alimentano la critica nei confronti di Putin per avere evitato il pugno duro con l’Ucraina. Falchi che vorrebbero la mobilitazione generale, una guerra più impegnativa, uno scontro frontale, ma su cui Putin tentenna per gli effetti che potrebbe avere forse anche sul piano internazionale. La popolazione, invece, non è stata mai interessata dalle azioni messe in campo dal presidente tra esercito e diplomazia, ma ora appare sempre meno granitica sul conflitto, con una classe media preoccupata dal futuro anche se la popolazione, in base alle analisi sociologiche, non rinnega la vicinanza al leader né vuole al momento una pace che abbia il sapore della sconfitta.
Tutto passa dalla reazione della Russia alla controffensiva. L’immagine di Putin e delle forze armate russe ne esce lesa. Ma quello che molti analisti sottolineano è che la differenza tra le precedenti sortite ucraine e quella di di questi giorni è che le prime avevano luogo in territori considerati come occupati. Mentre questa volta, le forze armate di Volodymyr Zelensky hanno penetrato un territorio che molti considerano sostanzialmente russo. Questo ha due conseguenze. Da un lato significa che con il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, Putin, se le truppe ucraine arrivano in questi territori, può considerarla una paradossale invasione, giustificando anche la mobilitazione richiesta dai falchi. Dall’altro lato, significa uno schiaffo morale di non poco conto visto che i russi davano per assodato che il Donbass fosse ormai russo, e giustificare un arretramento di fronte a un’opinione pubblica che subisce sacrifici e vittime, non è semplice nemmeno per un leader come Putin.
Il presidente russo sembra volere evitare “colpi di testa”: non ci sono notizie di rimozioni tra i ranghi dei politici e continua a mostrarsi pienamente consapevole di quanto accade nell’est e nel sud dell’Ucraina. Sul fronte internazionale, i prossimi incontri con il leader cinese Xi Jinpingn e il turco Recep Tayyip Erdogan possono ribadire le connessioni asiatiche cancellando l’immagine di Paese isolato. Ma il rischio è il venir meno della fiducia da parte della popolazione, tra isolamento internazionale e “operazione militare speciale” nel pantano, mentre i “falchi” iniziano a chiedere un impegno che potrebbe concretizzarsi in una nuova spinta all’aggressione. Se per il leader russo inizia una partita per la sopravvivenza, tutto potrebbe assumere caratteristiche molto diverse.
Di Lorenzo Vita. (Inside Over)