(Roma, 15 aprile 2022). Appoggio incondizionato di Damasco alla Russia e una delocalizzazione di armi russe che possono colpire l’Europa
La Russia ha attaccato l’Ucraina quasi due mesi fa. L’ipotesi di una guerra lampo, auspicata dal presidente russo Vladimir Putin è tramontata, e la possibilità di una « vittoria strategica » attesa dal Cremlino si allontana sempre più. Si fa avanti piuttosto uno scenario di un conflitto a lungo termine, con il susseguirsi di diverse fasi che richiederanno a Mosca un impegno militare intenso e protratto nel tempo.
Alla luce degli sviluppi provenienti da un teatro di guerra fino ad ora costato al Cremlino molti più uomini di quanti lo stesso Putin potesse immaginare e i cui numeri e stime sono oggetto di dibattito e propaganda da entrambi i fronti, è interessante interrogarsi su se e come evolverà l’impegno militare russo in Siria.
L’entrata in scena delle truppe di Mosca ha costituito infatti il vero elemento decisivo che ha ribaltato le sorti di un conflitto che pareva già segnato. Quando nel 2015 i russi arrivarono in Siria il presidente Bashar el Assad controllava a fatica una Damasco circondata da milizie e gruppi di opposizione e isolata dalla parte della costa mediterranea del Paese a lui fedele.
Cinque anni dopo Putin, a colpi di artiglieria pesante e bombardamenti aerei, ha rimesso Aleppo e tutto il resto del Paese, con l’esclusione dell’area di confine con la Turchia, nelle mani del presidente siriano, procedendo con attacchi mirati che hanno riconsegnato al regime di Damasco la nazione pezzo per pezzo.
Inevitabile che da Assad giungesse il pieno supporto a Putin nella guerra contro l’Ucraina. Un sostegno non solo diplomatico: Damasco ha infatti annunciato l’invio di uomini. Sebbene non si abbiano notizie di questi ultimi dal fronte, già pochi giorni prima dell’invasione il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu era partito alla volta di Damasco per discutere della « cooperazione tecnico-militare nella comune lotta al terrorismo ».
Il rappresentante del Cremlino ha assistito a una esercitazione militare, visitato l’aeroporto militare di Hemeimeem, la base navale di Tartus, l’unica di Mosca nel Mediterraneo, e preparato il terreno per la consegna e dispiegamento di aerei da guerra con missili ipersonici e lancia razzi con testate nucleari.
Una delocalizzazione di armamenti capaci di colpire fino in Europa, una mossa evidentemente mirata a tenere a bada i nemici in caso di una escalation del conflitto, ampliando notevolmente il fronte d’attacco proprio grazie alla Siria. Mosse che rivelano una strategia che non presuppone alcun disimpegno russo in Medio Oriente e che anzi include la Siria nel fronte di guerra, come se per Mosca si trattasse di un fronte unico, proprio mentre Assad non perde occasione di sfilare accanto alla bandiera russa e i gruppi ribelli siriani compaiono sempre più spesso al fianco della bandiera ucraina.
Mosca dunque non ha alcuna intenzione né interesse a cedere anche solo un millimetro del proprio mandato e potere acquisito in Siria. Dagli anni del suo intervento infatti la Federazione ha tutelato il regime di Damasco non solo all’interno della stessa Siria, ma anche presso le Nazioni Unite attraverso il proprio diritto di veto in Consiglio di Sicurezza. Dal 2015 a oggi la collaborazione tra Putin e Assad ha dato vita ad accordi economici, militari, energetici, edilizi e culturali, mentre l’aeroporto militare di Hemeimeem e la base navale di Tartus rimangono fondamentali per il fronte sud est su cui Putin agisce, tanto da essere protette dai sistemi di difesa missilistica s-300 e s-400 che Mosca ha piazzato più a sud.
Rimane un solo punto interrogativo sul futuro dell’impegno russo in Siria e riguarda il corridoio navale che Mosca aveva instaurato tra le basi navali del Mar Nero e Tartus, corridoio attraverso cui la Russia dal 2015 ha inviato uomini, navi da guerra e sottomarini in Siria e fatto valere il proprio peso nel Mediterraneo. Prima dell’inizio del conflitto in Ucraina, Mosca aveva radunato le proprie navi presso i porti del Mar Nero in previsione non solo dell’attacco, ma anche della probabile decisione della Turchia di chiudere gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo alle navi da guerra, in ottemperanza alla convenzione di Montreux.
Decisione poi effettivamente arrivata da parte di Ankara pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione e che non e’ destinata a incidere sulle sorti della guerra in Ucraina, ma che impedisce a Mosca di utilizzare quel corridoio navale per futuri rifornimenti verso Tartus e verso i propri contingenti e l’alleato Assad in Siria.
Di Giuseppe Didonna. (AGI)