MEDIO ORIENTE: IL DISIMPEGNO AMERICANO E LE SUE CONSEGUENZE

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(Roma, 23 novembre 2021). “In Medio oriente, non vogliamo grane”. Questo, in sintesi, il messaggio, s’intende ufficioso, che dirigenti ed esperti dell’Amministrazione americana trasmettono di continuo ai loro ascoltatori.
E’, almeno indirettamente, la presa d’atto del fallimento dei  grandi disegni perseguiti, prima da Bush jr- la guerra al terrorismo- e poi da Obama- l’alleanza con l’islam democratico delle “primavere arabe”. Ma è anche, a livello di coscienza diffusa, la crescente riluttanza ad un impegno militare e politico diretto in un  quella che Lucio Caracciolo chiama “caoslandia”, dilaniata da conflitti di ogni tipo e ricca di nemici, reali e/o potenziali.
Guardando al futuro, però, questa ritirata ha dei connotati ottimistici. Perché attribuisce agli  Stati uniti il ruolo di “garanti esterni”di un processo di distensione già avviato, autonomamente, nell’area. E, comunque, tale da non ipotizzare disastri prossimi venturi.
Attenzione, non stiamo parlando qui di una linea perseguita da Biden con piena consapevolezza (anche perché il Nostro non è ancora  in grado di formularle qualcuna sia per le sue difficoltà interne sia perché quelle sinora  portate avanti sono, quasi sempre tra loro incompatibili). Ma, piuttosto, di un auspicio; o magari di una ipotesi di lavoro. Per verificare  la loro fondatezza prenderemo ora in esame la situazione nelle varie aree di crisi. Rigorosamente esaminate in ordine alfabetico.
AFGHANISTAN
Con l’andar del tempo, le origini del disastro appaiono un po’ più chiare. E hanno a che fare con la dissoluzione, insieme militare e politica, del fronte antitalebano; dissoluzione  generale e molto più rapida del previsto.
Sarebbe interessante capire, a questo punto, le ragioni di questo crollo totale:  che ha coinvolto proprio tutti i personaggi di questo ventennio. Da Karzai a Ghani, a quelli dell’Alleanza del Nord; sino al figlio ed erede di Massud. Uno che aveva resistito per anni all’Armata rossa e poi al  talebani; mentre oggi il Panshir è crollato nel giro di una settimana. Ma, chissà mai perché, l’argomento non appassiona nessuno.
Sta di fatto, comunque, che, per i talebani, il regalo inaspettato è stato anche un regalo avvelenato. Niente governo inclusivo per la scomparsa dei necessari interlocutori. Un paese impossibile da gestire anche per l’incapacità di controllare il territorio e soprattutto di sfamare la gente. 40 milioni di persone sull’orlo del disastro umanitario: parola che, peraltro, a furia di essere ripetuta, non interessa praticamente a nessuno.
Non siamo alla vigilia di un ritorno alla barbarie (su cui i nostri giornali sembrano scommettere) ma già oggi  nel pieno di un caos in cui nessuno (a partire dalle donne ma non solo) si sente garantito e tutti temono il peggio.
Un quadro di incertezza e di diffuso timore per il futuro; ma, proprio per questo, suscettibile di essere modificato, in meglio, dall’intervento internazionale. Un intervento, comunque, doveroso: anche perché, lo dice,tra i tanti, anche il Financial Times, “ non si possono far pagare ai popoli le colpe dei loro regimi”.
Ma la cosa non sembra turbare oltre modo l’”anglosfera”. Che a fronte degli 8 miliardi a disposizione dei predenti governi e ora congelati, hanno, almeno per ora, promesso aiuti per poche centinaia di milioni. Delegando, peraltro, ai grandi paesi limitrofi ( tutti, peraltro, iscritti nella lista dei cattivi) il compito di occuparsi delle  faccende da un punto di vista internazionalepiù urgenti: in primis la “neutralizzazione strategica” del paese e la questione dei profughi.
Tutto comprensibile, per carità; ma a patto di non lamentarsi se poi i diritti umani degli afghani, uomini compresi, non saranno oggetto dell’attenzione dovuta. E se, a gestire la questione afgana, e nei loro interessi, saranno gli altri. E non l’occidente.
IRAN
E’ prevista, alla fine di novembre, la ripresa del negoziato sul nucleare iraniano. Con la presenza degli  altri firmatari dell’accordo (poi fatto saltare da Trump, con la ripresa delle sanzioni), Francia, Germania, Gran Bretagna e Russia; ma senza quella degli Stati Uniti. Ancora, un disimpegno voluto; che però, a prima vista, sembra difficilmente conciliabile con l’aspirazione dell’Amministrazione di “evitare grane”; a partire dal fatto che le grane legate, direttamente o di riflesso, alla “questione iraniana” stanno crescendo in modo esponenziale.  Mentre l’America si tiene ancora fuori, a poco meno di un anno dall’insediamento di Biden, da quel negoziato  che pure era considerato prioritario nel suo programma, a partire dalla riattivazione/revisione dell’accordo sul nucleare.
Riattivazione che però sembra allontanarsi nel tempo. Perché il regime iraniano prende tempo e moltiplica i suoi atout (anche in assenza di qualsiasi garanzia sulle tenuta nel tempo dell’intesa). Ma anche per le incertezze della controparte.
In realtà, come sta avvenendo un po’ su tutte le questioni all’ordine del giorno nel mondo, gli Stati Uniti sono più che disposti a discutere con il regime di Teheran: ma non hanno ancora stabilito come e su che cosa.
Nel primo caso perché non si sono ancora resi conto del fatto che, per una serie di ragioni, l’allentamento delle sanzioni, sino alla loro cancellazione, non può essere la conseguenza del successo del negoziato con l’annesso ritorno del reprobo sulla retta via; ma piuttosto la premessa per il suo avvio. Nel secondo perché, contrariamente a quanto avvenne prima degli incontri di Vienna gli americani vorrebbero discutere non solo del nucleare ma anche delle politiche perseguite dagli iraniani in Medio oriente; mentre il regime iraniano non è disposto a farlo, nell’assenza di contropartite adeguate. Un’impasse che non dovrebbe dare luogo ad eventi drammatici (anche in virtù della già citata ripresa dei negoziati) Ma che, negli ultimi mesi, ha rallentato il ritorno ad una relativa normalità nei rapporti israeliano/palestinesi; contribuendo, per altro verso, a portare a livello di guardia la crisi libanese e senza visibili vie d’uscita.
ISRAELE/PALESTINA
Stiamo parlando qui di un’area politica in cui la scommessa di Washington – avere, insieme, il disimpegno e  la riduzione delle tensioni- aveva e ha tuttora le maggiori possibilità di successo. Anche perché si basa su di un rapporto di ferro di ferro tra la nuova amministrazione democratica e il governo israeliano, analogo a quello esistente tra Trump e Netanyahu ma a sostegno di indirizzi politici molto diversi.
Rimane, naturalmente, l’accantonamento “sine die” di un’ipotesi di accordo basato sulla formula “due popoli due stati”. Ma si tratta, come dimostrato da tutti i più recenti sondaggi  di opinione, di una prospettiva che alla grande maggioranza dei cittadini del “West bank” interessa sempre di meno. E per due ragioni: perché la si ritiene irrealizzabile; e soprattutto perché la prospettiva di essere governati dall’Autorità palestinese è respinta dall’80% degli intervistati. Perché del tutto incapace di difendere la causa palestinese; ma anche perché autoritaria e profondamente corrotta.
A erodere il prestigio di Hamas c’è invece qualcosa di più profondo. Ed è la sensazione sempre più diffusa, anche se ancora sotto traccia, di essere usati come pedine in uno scontro con lo stato ebraico, di cui sono destinati a subire tutti gli effetti collaterali ; il tutto in vista, almeno ufficialmente, di una prospettiva, la “liberazione della Palestina”, che gli appare sempre più lontana e illusoria.
A questo punto, sia in Cisgiordania che a Gaza (in questo sempre più vicini alla posizione degli arabi di Israele) stiamo assistendo, almeno nell’immaginario collettivo, ad una vera e propria rivoluzione copernicana. I cui protagonisti sono, in prima persona, i palestinesi. E in cui obbiettivo assolutamente preminente è quello di  ottenere una condizione di vita più decente di quella attuale. E da ogni punto di vista.
Un messaggio che il nuovo governo israeliano, d’intesa con Biden, sembra aver recepito. Con una serie molto ampia di misure unilaterali, in Israele, nei territori occupati e a Gaza, tutte però di portata ridotta.
Ad impedire  di andare oltre, tre fattori. Le pressioni dei coloni per costruire nuovi insediamenti, rendendo, nel contempo, la vita impossibile nei villaggi palestinesi adiacenti. Il rifiuto di Hamas di chiudere la trattativa in corso con un quel formale accordo di tregua di cui la popolazione di Gaza sarebbe la principale beneficiaria. E, infine, il mancato impegno, anche finanziario, americano ed europeo per un intervento umanitario a sostegno di una possibile intesa.
LIBANO (E SIRIA)
Se c’era, e c’è, un paese meritevole del sostegno politico degli Stati Uniti e dell’Occidente, questo è il Libano. E non certo per la sua forza politica e tantomeno militare. Ma per il modello che ha rappresentato e, forse, potrebbe ancora rappresentare. E in un’area che ne avrebbe tantissimo bisogno.
L’abbiamo chiamato, per qualche tempo, la Svizzera del Medio oriente. E, per tanti aspetti, a buona ragione. Dimenticandoci, però, che la Svizzera ha potuto svolgere, e in tutti i sensi, un ruolo di rifugio è perché è, ormai da secoli, libera da qualsiasi minaccia esterna. L’esatto contrario di quello che è accaduto e sta tuttora accadendo nei paese dei cedri; e dal secondo dopoguerra ad oggi. E, quasi sempre, nell’attenzione distratta dell’Occidente.
Oggi, la sua comunità è, oramai, sull’orlo del definitivo dissolvimento. Travolta, sotto ogni aspetto, dall’incapacità di un potere malavitoso. E dalla impossibilità di reagire.
A fronte di tutto questo, proposte di governi tecnici privati, in partenza, della possibilità di agire.. E, aggiungendo al danno la beffa, sanzioni a pioggia  che fanno scontare ai governati le colpe dei governanti. Così come accade, per inciso, nella Siria di Assad.
In questa  situazione, la gestione della crisi libanese rischia di essere la tappa finale della strategia del disimpegno.  Anche perché i pochi risultati raggiunti potranno essere facilmente spazzati via da una vittoria repubblicana nelle elezioni “midterm”.
E allora , scartato il ricorso alla  forza, occorrerà cambiare registro e allargare il campo.  Internazionalizzando la crisi libanese sia sul piano economico che su quello politico. E, soprattutto, favorendo il processo di normalizzazione in atto tra Siria e stati del golfo e tra stati del golfo e e Iran che , se procederà, renderà, oggettivamente, sempre più insostenibile la presenza di stati nello stato e di milizie armate.

Di Alberto Benzoni