Dilemma turco sugli F35. Ankara li vuole, ma poi che dirà a Mosca ?

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Washington, DC, USA - May 16, 2013: The U.S. Chamber of Commerce hosts the Prime Minister of Turkey Recep Tayyip Erdoğan and Vice President Joe Biden for a CEO roundtable and general address marking the launch of the U.S.-Turkey Business Council. With David Chavern, Coca-Cola Chairman and CEO Muhtar Kent and Myron Brilliant Photo by Ian Wagreich / © U.S. Chamber of Commerce

(Roma, 06 novembre 2021). Le parole dello speaker del governo, “la prima scelta della Turchia è quella di essere nel programma F-35 e la sua esclusione a causa CAATSA è illegale”, possono aprire una fase nuova tra Erdogan e Biden, ma senza una marcia indietro sugli S400 russi come fare ?

“La prima scelta della Turchia è quella di essere nel programma di caccia F-35 e la sua esclusione a causa del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act del 2017 (CAATSA) è una pratica sleale e illegale”. Lo ha detto lo speaker del governo Ibrahim Kalın, dopo il recente vertice del G-20 tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e quello statunitense Joe Biden. Ad Ankara fanno filtrare ottimismo circa una nuova fase delle relazioni tra i due paesi, anche se gli ostacoli per ora non sono stati rimossi. Ma quelle parole davvero potrannno aprire una fase nuova tra Erdogan e Biden senza una marcia indietro su casi scottanti come gli S400?

QUI ANKARA

In primis va ricordato che la Turchia ha effettuato un pagamento di 1,4 miliardi di dollari per il programma F-35: secondo Kalın è all’ordine del giorno del Congresso degli Stati Uniti un disegno di legge per fare un’eccezione per l’India e l’Australia, che ora stanno ricevendo l’S-400. E ha aggiunto che se il problema degli F-35 non viene risolto, allora “non abbiamo il lusso di perdere tempo, ma possiamo provare a compensare questo con gli F-16. L’amministrazione americana ha mostrato un atteggiamento positivo nei confronti di questo fino ad ora”.

SANZIONI

La tesi perorata da Kalin è che se il problema è “imporre sanzioni solo ai paesi che acquistano unilateralmente armi pesanti dalla Russia, perché vengono fatte eccezioni a questi paesi? Se non esiste una tale regola, perché queste sanzioni vengono imposte alla Turchia?”. E ha aggiunto che la priorità di Ankara è soddisfare le esigenze della Turchia nel campo dell’industria della difesa: il riferimento è, evidentemente, alle alternative nelle mani di Erdogan, come i droni autoprodotti che sono stati anche proposti in occasione del recente viaggio del Presidente in Africa. Infine ha lanciato un avvertimento agli altri players: “Se dovessimo elencare da quattro a cinque questioni geopolitiche che influenzano direttamente la politica mondiale in questo momento, come l’Afghanistan, il Mediterraneo orientale, la Siria, il Caucaso e la Libia, sono tutte collegate alla Turchia”.

FRONTI APERTI

Dopo i proclami, la realpolitik. Punto di partenza il fatto che i due più grandi eserciti della NATO stanno attraversando una crisi di relazioni, messa a dura prova dai legami turchi con Cina e Russia e dal tentativo di Erdogan di farsi maxi player nell’intera regione a cavallo tra il quadrante euromediterraneo e quello mediorientale/caucasico. Qui inizia a vacillare il dialogo tra Washington e Ankara, con l’appendice del caso F35 che è la naturale conseguenza della condotta turca orientata verso una profondità strategica neo ottomana, come scritto dall’ex premier Ahmet Davutoglu nel suo volume del 2011.

I dossier critici sono molteplici e tutti interconnessi. La Turchia vorrebbe acquistare per 6 miliardi di dollari da Lockheed Martin 40 nuovi F-16 mentre gli Stati Uniti hanno finalizzato la rimozione della Turchia dal programma F-35 in conseguenza dell’acquisizione del sistema di difesa missilistica S-400 (che ha acquistato nel 2019 e di cui sta contrattando con Mosca un secondo acquisto). Inoltre da un lato l’Unità di protezione del popolo (YPG) ha sostenuto gli Stati Uniti per combattere lo Stato Islamico in Siria, dall’altro è visto come mortale nemico da Erdogan.

Infine il caso del filantropo Fethullah Gulen, in esilio in Pennsylvania, accusato da Erdogan di aver orchestrato il golpe del 2016. Per contro, Ankara ha arrestato il pastore americano, Andrew Brunson, per sospetto coinvolgimento nel tentato golpe senza dimenticare l’irritazione turca per i nuovi alleati americani nel Mediterraneo (Grecia e Cipro che a differenza di Ankara si muovono nella cornice del diritto internazionale).

VIA DI USCITA

La questione relativa alla decisione turca di espellere dieci ambasciatori che chiedevano il rilascio dell’imprenditore Osman Kavala, non ha giovato alle relazioni turco-americane. Come non va dimenticato che le relazioni della Turchia con i suoi tradizionali alleati della Nato sono già tese da anni. Il dossier immigrazione e quello energetico hanno semplicemente impattato su un quadro già ampiamente complesso, su cui altri soggetti esterni alla contesa si stanno muovendo per trarne dei vantaggi.

La Turchia, ad esempio, dopo Libia, Siria e Africa, sta lavorando a fari spenti nei Balcani per ritagliarsi un ruolo di primo piano. La decisione di realizzare di tasca propria un aeroporto in Albania lo dimostra, seguendo la “traccia” cinese legata alla BRI ed all’invasività legata alle infrastrutture. Importante al pari dell’affare legato alla privatizzazione dei porti in Grecia, dove per gli scali di Alexandroupolis e Kavala (strategici per la vicinanza alle pipeline del gas) Pechino vorrebbe intralciare i piani degli Usa tramite le aderenze turche in Tracia.

La sensazione è che la Casa Bianca proverà a cercare una cooperazione dove essa è possibile, respingendo, quando necessario, le fughe in avanti di Erdogan.

Di Francesco De Palo. (Formiche)