Le sfide di Najib Mikati, nuovo premier libanese, secondo l’amb. Gabriele Checchia

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(Roma, 27 luglio 2021). Dopo la rinuncia di Hariri a causa delle tensioni con il presidente Aoun, tocca all’uomo d’affari Mikati provare a formare un nuovo governo in Libano. L’analisi di Gabriele Checchia, già ambasciatore d’Italia a Beirut in tre articoli. Ecco il primo

Con la rinuncia da parte di Saad Hariri lo scorso 15 luglio all’incarico di formare un nuovo governo dopo quasi un anno di infruttuosi tentativi, il Libano sembrava destinato a scivolare ancor più sul piano inclinato di una crisi multidimensionale apparentemente insolubile. L’esecutivo ancora in carica per gli “affari correnti” guidato dal pur brillante accademico sunnita (comunità cui il Patto nazionale del 1943 riserva l’incarico di primo ministro), Hassan Diab, si trova in effetti confrontato a un compito da far tremare le vene ai polsi: quello di evitare che il Paese dei Cedri – e il baratro, nella percezione di tutti gli osservatori, non è lontano – si diriga verso una situazione di “Stato fallito” superando, per così dire, il punto di non ritorno.

Non è un caso che una figura dal linguaggio generalmente misurato come il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, abbia nelle scorse settimane parlato di un Paese ormai “in modalità autodistruzione” e che l’Alto rappresentante europeo Josep Borrell abbia tenuto, dal canto suo, a esplicitare – ovviamente sempre prima del conferimento del mandato a Najib Mikati – “il più profondo rammarico” per il fallimento di un ulteriore tentativo di dotare il Paese di un governo nella pienezza dei suoi poteri.

Il dato nuovo di queste ultime ore – che consente di continuare a sperare che la fragile democrazia libanese (per molti versi una perdurante eccezione nel mondo arabo, pur con tutte le sue peculiarità a cominciare dall’impressionante arsenale in possesso di Hezbollah ben superiore alle dotazioni dell’esercito regolare) possa alla fine trovare una seppur travagliata via di uscita alla crisi nel rispetto delle procedure costituzionali – è, appunto, rappresentato dall’incarico di formare un nuovo esecutivo conferito (lunedì 16 luglio) dal presidente Michel Aoun a Mikati, ricco uomo d’affari, sunnita, deputato di Tripoli (Libano settentrionale): già due volte primo ministro – nel 2005 e nel 2011 – e una delle principali fortune del mediorientali, con un capitale stimato da Forbes intorno ai 2,7 miliardi di dollari.

È un incarico maturato al termine delle consultazioni parlamentari vincolanti condotte in tempi stretti dal capo dello Stato. Consultazioni che hanno fatto emergere la convergenza, sul nome di Mikati, di 72 voti (in particolare quelli dei parlamentari sunniti del Blocco del futuro, dello stesso Hariri e dell’ex primo ministro Fouad Siniora, nonché dei deputati di Hezbollah il cui capogruppo Mohammad Raad ha tenuto a precisare che è intenzione del suo partito non far mancare il proprio apporto alla costituzione di un nuovo governo – mai la stessa formazione, pur non ostacolandolo apertamente, si era espressa a supporto degli sforzi condotti dal figlio di Rafic Hariri). All’altro candidato, l’ambasciatore Nawaf Salam, ex rappresentante permanente del Libano presso le Nazioni Unite e stimato giurista, è andato un solo voto e ben 42 sono state le astensioni. E il primo spunto di riflessione, di natura politica, scaturisce proprio dall’elevato numero di astensioni tutte provenienti dal campo “cristiano”.

Né la “destra” cristiana, in larga misura identificabile con le Forze libanesi di Samir Geagea (ma lo stesso vale per il partito Kataeb dell’ex presidente Amine Gemayel), né la Corrente patriottica libera (raggruppamento filo Hezbollah e filo Iran, nonché al momento principale formazione cristiana in seno all’Assemblea nazionale a lungo guidata dall’attuale capo dello Stato e ora affidata al genero dello stesso Aoun, Jibran Bassil) hanno infatti ritenuto, seppur per diversi motivi, di poter far confluire i loro voti sulla figura sessantacinquenne Mikati.

Si tratterà ora di vedere – al di là dell’esito che potrà avere il tentativo di quest’ultimo di dotare infine il Libano una compagine nella pienezza dei suoi poteri – se tale “marginalità” dei due più grandi partiti cristiani nelle dinamiche in atto sia destinata a rivelarsi aspetto di carattere dopo tutto accessorio (una sorta di epifenomeno) o non, piuttosto, un indicatore per molti versi allarmante di una progressiva perdita di peso dell’elemento “cristiano” nella definizione delle maggioranze chiamate di volta in volta a dar sostanza al governo e, dunque, alla vera “cabina di regia” delle scelte del Paese dei Cedri sul piano interno e internazionale.

Un secondo interrogativo riguarda l’effettiva possibilità per Mikati di gestire in maniera autonoma – seppur in una cornice di regolare consultazione con il presidente – la formazione del gabinetto: a cominciare dalla lista dei ministri. Si tratterà, in altri termini, di capire se gli ostacoli frapposti dal capo dello Stato al tentativo infruttuoso di Hariri (a cominciare, stando a quest’ultimo, dall’insistenza del suo interlocutore per riservarsi in via esclusiva la scelta dei ministri “cristiani” onde essere certo di avere solo figure in linea con la sua visione sul piano interno e regionale) si riproporranno anche nei confronti di Mikati, personalità peraltro notoriamente meno ostile di Hariri all’asse siro-iraniano. E dai sostenitori in Libano di tale asse egli venne non a caso proposto come premier, in quella occasione con successo e questa volta si vedrà, nel 2011: ciò che dovrebbe in qualche misura rassicurare Aoun.

Una risposta a tale secondo quesito non dovrebbe tardare. E questo, alla luce dell’intendimento del primo ministro designato di dar vita – secondo quanto si dice – a un nuovo esecutivo entro il prossimo 4 agosto (anche se altre fonti sostengono che egli sia dato un mese di tempo per condurre a termine le consultazioni e sciogliere la riserva). E questo anche nella consapevolezza di essere visto con diffidenza da vasti strati della locale opinione pubblica che, a torto o ragione, ravvisano in lui una figura organica a quell’establishment dai più ritenuto il principale, se non l’unico responsabile, del momento drammatico che sta vivendo il Paese. Di tale urgenza di recuperare consenso in particolare presso i ceti più svantaggiati Mikati si è apprezzabilmente già detto consapevole e determinato a non lesinare sforzi.

Con riferimento alla possibile squadra di governo, le sue intenzioni non appaiono troppo dissimili da quelle a suo tempo esplicitate dal suo predecessore infrantesi, come detto, contro il già citato muro di incomprensioni tra Hariri e Aoun. Subito dopo aver ricevuto l’incarico, Mikati – cui sono immediatamente giunti copertura non irrilevante, i calorosi auguri della principale autorità religiosa sunnita del Paese, il muftì della Repubblica – ha infatti indicato essere sua volontà quella di dar vita, sulla base di un costruttivo dialogo anche “con i settori più responsabili della società civile”, a un esecutivo composto esclusivamente da tecnici di alto profilo “per scongiurare il definitivo tracollo del Paese”. E di intendere muoversi, godendo di diffusa e trasversale stima a Parigi, “nello spirito di quanto auspicato dal presidente [francese Emmanuel] Macron”.

Il primo ministro incaricato ha significativamente aggiunto – pur senza fornire dettagli (ma i più hanno interpretato le sue parole come un indiretto riferimento al via libera al suo tentativo che egli avrebbe già ricevuto tra l’altro dalle principali potenze sciite e sunnite della regione, Arabia Saudita e Iran in primis, ma anche Egitto e Siria) – di “disporre delle necessaria garanzie esterne per uscire dalla crisi”. Garanzie in assenza delle quali, ha voluto significativamente precisare, non avrebbe accettato l’incarico (in un’intervista all’autorevole quotidiano moderato An Nahar si è poi rallegrato dell’impegno statunitense a scongiurare, “anche attraverso un consistente supporto alle sue forze armate” in grave carenza di risorse, che il Paese finisca nel baratro).

È partita, dunque, forse decisiva quella che si sta giocando a Beirut in queste ore: a pochi giorni dalla prevista tenuta proprio il prossimo 4 agosto – nel primo anniversario della drammatica esplosione al porto di Beirut i cui responsabili restano a oggi forse non casualmente ignoti – di una terza conferenza dei donatori dopo le due infruttuose dell’aprile 2018, con 9 miliardi di euro promessi e mai versati per la mancanza di un accordo tra le autorità libanesi e il Fondo monetario internazionale sulle riforme da attuare, e del 9 agosto 2019 tradottasi – ancora una volta per l’assenza di una controparte libanese in grado di tener fede agli impegni – semplicemente nell’erogazione di aiuti umanitari di emergenza (250 milioni di euro) pochi giorni dopo la già evocata duplice esplosione: più di 210 vittime accertate e circa 7.000 feriti e dispersi.

Nulla consente, per ora, di dare per scontato che l’imminente nuova conferenza dei donatori, ove confermata, sia destinata a sfociare in risultati di sostanza salvo miracoli, quale sarebbe, appunto, la nascita di qui al 4 agosto di un esecutivo, in grado di assumere credibilmente quegli impegni sul terreno della governance e delle cose da fare ab initio invocati dalla comunità internazionale e dalla stessa posti come precondizione per lo scongelamento degli aiuti. Né, temo, sarà sufficiente a sbloccare lo stallo – sempre qualora il tentativo di Mikati tardi oltre i limiti dell’accettabile a produrre i risultati auspicati – l’impianto sanzionatorio nei confronti delle “figure che impediscono la soluzione della crisi” ( figure peraltro non facilmente identificabili salvo entrare in dirompenti discussioni con l’una o l’altra componente, anche confessionale, di quella scena interna) cui sta lavorando l’Unione europea in applicazione della decisione in tal senso adottata dal Consiglio Affari Generali dello scorso 12 luglio.

Un quadro caratterizzato pertanto da luci e da ombre – mentre, sino all’incarico al collaudato miliardario sunnita, queste ultime nettamente prevalevano – sullo sfondo dei terribili costi umani che la crisi da tempo comporta: da un tasso di povertà salito lo scorso anno, secondo stime delle Nazioni Unite, al 55% dopo una crescita del 28% solo nel 2019; a un tasso di disoccupazione cresciuto dal 28% del febbraio 2020 a quasi il 40% del dicembre 2020; al massiccio esodo dal Paese di professionisti, docenti e manager qualificati, molti dei quali di religione cristiana (tanto che c’è da chiedersi se non si stia prefigurando uno scenario all’irachena con una comunità cristiana, un tempo fiorente, ridotta ormai ai minimi termini); a una inflazione galoppante; alla penuria di energia elettrica e di medicinali di prima necessità (circostanza ancor più devastante in epoca di pandemia); al tracollo della lira libanese nei confronti del dollaro con un cambio ufficiale ancor oggi fissato a poco più di 1.500 lire libanesi e quello sul mercato parallelo che ha superato nei giorni scorsi la soglia delle 22.000 lire libanesi per dollaro.

E questi sono solo alcuni dei dolorosi indicatori sociali della situazione che sta attraversando quella che era una volta considerata a torto a ragione (forse più a torto che a ragione data la ormai evidente fragilità delle fondamenta dell’apparente benessere di quell’epoca, salvo che per i soliti noti) la Svizzera del Medio Oriente. Indicatori rivelatori, comunque, di una situazione ormai non lontana dall’implosione quanto meno sul piano socio-economico.

Si tratta in ogni caso della più grave crisi finanziaria e sociale vissuta dal Libano dall’epoca della Guerra civile (1975-1990) – il cui carico di morte e distruzione è ancora vivo nella memoria di molti e ciò che dovrebbe, si spera, scongiurarne il ripetersi – nonché, secondo gli esperti della Banca mondiale, “tra le più gravi a livello internazionale degli ultimi 150 anni”.

Non può dunque sorprendere né il vento di rivolta anti-establishment che da quasi due anni ormai percorre il Paese da Nord a Sud ( con l’eccezione politicamente significativa delle aree di Beirut e del Sud del Paese a controllo Hezbollah), a cominciare dalle fasce giovanili delle più diverse classi sociali; né la persistente richiesta degli stessi settori di una superamento in tempi stretti del sistema confessionale – superamento previsto peraltro dagli Accordi di Taef del 1989, con la creazione di una Camera bassa sulla base del principio “un uomo un voto”, ma mai messo in atto, al pari del parimenti previsto disarmo delle milizie, in larga misura per l’opera di interdizione posta in essere da Siria e Iran e dai loro proxy; né, infine, l’attenzione che sta suscitando nel Paese il recente avvio per negli Stati Uniti e in Paesi europei (a partire da Svizzera e Francia) di procedimenti giudiziari a carico di figure considerate a torto o a ragione la quintessenza dell’establishment come il governatore della Banca centrale da più di 20 anni, il maronita Riad Salameh (più che mai determinato a dimostrare la propria innocenza), pur insignito sino a pochi anni fa di prestigiosi riconoscimenti internazionali tra cui quello di miglior banchiere centrale.
Di Gabriele Checchia. (Formiche)