(Roma, 25 luglio 2021). Ci fu un tempo in cui il Libano veniva chiamato la Svizzera del Medio oriente. Ma era una definizione che valeva solo per definire, con ammirazione ma anche con disprezzo a seconda dei punti di vista, un paese dove i riccastri dei paesi del Golfo, e in particolare dell’Arabia saudita, trascorrevano le loro vacanze o dove i riccastri degli altri paesi del mondo potevano evadere il fisco o qualche mandato di cattura.
Oggi quel mondo non esiste più. O, più esattamente, si è trasferito completamente altrove. Per i paradisi fiscali, basta contattare gli esperti a propria disposizione. Per i traffici internazionali “border line” e i fringe benefits a propria disposizione c’è Dubai. Mentre i sullodati riccastri hanno comunque cancellato il paese dei cedri dalla loro vista e dal loro cuore.
Per il resto – che coincide poi con la propria identità nazionale e con la possibilità di difenderla – il Libano non è mai stato la Svizzera del Medio oriente; anzi è stato l’esatto contrario. Da tempo immemorabile, diciamo dai tempi di Guglielmo Tell- il modello originale non è stato attaccato dall’esterno perché l’operazione appariva a tutti rischiosa e non pagante; fino a che la sua indipendenza e neutralità sono apparse, e in due guerre mondiali, vantaggiose per tutti. Oggi, l’esistenza , nel cuore del nostro continente, di un paese indipendente è neutrale, essenziale per i suoi concittadini, è considerata una risorsa preziosa anche dal mondo cui appartiene.
Avrebbe dovuto essere così anche per il Libano: modello di libertà e di convivenza politica, etnica e religiosa a disposizione di un mondo che ne era totalmente privo; e, nel contempo, pacifica testa di ponte della civiltà occidentale e possibile canale del suo dialogo con il mondo arabo.
Ma le cose non sono andate così. Anzi è accaduto l’esatto contrario. Perché le potenze mediorientali – dall’Egitto di Nasser alla Siria del Baath e di Assad, dall’Israele di Sharon e di Begin all’Olp di Arafat, dall’ Iran degli ayatollah all’Arabia saudita di bin Salman- hanno sempre usato il Libano come luogo deputato per farsi la guerra per via indiretta. Salvo a buttarlo per terra come un guscio vuoto quando non serviva più a questo scopo. Ma anche perché per le potenze occidentali le sofferenze arrecate al paese e, per inciso, ai cristiani d’oriente dai loro ripetuti interventi militari erano tutt’al più un fastidioso ma tutto sommato poco rilevante effetto collaterale rispetto alla grandezza del disegno.
In tutte queste vicende, l’indipendenza del Libano e la libertà e la stessa vita dei suoi abitanti rappresentavano un bene che poteva essere sacrificato in nome di progetti che con gli interessi generali del paese non avevano nulla a che fare. Progetti destinati, per inciso, a naufragare uno dopo l’altro. Ma lasciando dietro di loro una scia di rovine. E senza che nessuno dei loro autori fosse chiamato a riparare al male che era stato fatto.
Si potrebbe osservare che, a chiamare in aiuto il, diciamo così, “protettore esterno”sono sempre state quelle che vengono definite, con la solita spocchia di noi occidentali, “fazioni libanesi”. E questo è vero. Ma è anche vero che, passato il diluvio, a lasciare i loro morti sulla spiaggia sono sempre stati i più deboli: gli innocenti e non i colpevoli; i poveri e non i ricchi; i piccoli imprenditori e commercianti rispetto ai grandi speculatori; gli uomini liberi rispetto ai servi del potere; i disarmati e indifesi rispetto ai violenti; le persone rispetto ai clan; e, per dirla tutta, i difensori del patto nazionale del 1946 rispetto a quelli che lo contestano in linea di principio e di fatto.
E, alla fine di tutto, l’abbandono e il disinteresse generale.
Questa brutta favola ha oggi una sola morale. La constatazione che, abbandonato a sé stesso, il Libano sta correndo inesorabilmente verso la totale rovina. Un dato, certo, del tutto irrilevante per coloro, e sono tanti, che guardano alle vicende del mondo con i paraocchi dell’ideologia o con le lenti dei propri interessi di potenza. Ma essenziale per quanti ricominciano a guardare e giudicare gli eventi in base ai loro riflessi sulla vita delle persone e ai giudicare i paesi non in base alla loro importanza geopolitica e alle risorse di cui dispongono ma piuttosto al modello di convivenza umana e civile che potrebbero rappresentare.
Non è certo un caso che nel mondo di oggi- fondato com’era sulla prevalenza degli interessi individuali su quelli collettivi e poi colpito dal ritorno dei Cavalieri dell’Apocalisse- si moltiplicano a dismisura i cosiddetti “stati falliti”. Per propria colpa, certo, ma anche per una serie di pressioni esterne che non sono stati in grado di controllare.
E non è nemmeno un caso che la moltiplicazione di stati falliti cominci a rappresentare un grave problema per qualsiasi ordine mondiale degno di questo nome.
Per la comunità internazionale, per le sue istituzioni, per le grandi potenze che ne rappresentano l’ossatura, l’urgenza di turare la falla. E l’obbligo morale e politico di cominciare di riparare i danni e di aiutare le persone a prescindere da qualsiasi altra considerazione.
Da quest’ultimo punto di vista il nostro Libano è un caso esemplare. Un puntolino sulla carta geografica. Niente petrolio o altre risorse appetibili. Nessuna minaccia nei confronti di nessuno. Nulla che ci obblighi a schierarci; o comunque a nutrire interesse o preoccupazione nei suoi confronti. Per molti di noi, me compreso, un paradiso perduto; ma anche un paradiso perduto che appartiene a pochi e che non interessa a nessun altro.
Se cominciamo però a guardare alle persone e alle vittime di disastri non riparati, il quadro cambia radicalmente. E Cenerentola ridiventa ciò che doveva essere sin dal principio; una principessa. Perché, se guardiamo alle persone il Libano non è un semplice stato fallito. Ma un paese che cessa di esistere. E non per una volontà malvagia ma per pura e semplice criminale incuria. Perché non riusciamo a vedere e rinunciamo a rimediare ad una catastrofe umana che è davanti ai nostri occhi.
Per rimediare, basta poco. Perché i soldi ci sono. E anche le forze e le istituzioni disposte ad impegnarsi. Basterà, allora, per chi intende costruire un nuovo ordine mondiale, rendersi conto che non è tollerabile che un popolo sia condannato alla fame e alla morte per pura e semplice incuria. E magari, già che ci siamo, capire che risolvere i problemi della gente può aiutare a risolvere quelli della politica.
Basterà poco. Meglio ancora, se subito.
(Di Alberto Benzoni)