(Roma, 22 luglio 2021). A pochi mesi dalla sua entrata in carica Biden viene almeno negli Stati Uniti, paragonato a Roosevelt. Almeno per l comune’ampiezza dei suoi propositi; e delle sue prime realizzazioni.
Roosevelt ebbe però la possibilità di affrontare i suoi avversari in tempi diversi. Mentre Biden deve affrontarli tutti insieme. E a partire da una condizione svantaggiosa.
All’interno uno scontro frontale il cui esito dipenderà dal l’esito delle elezioni del novembre 2022. Sul piano internazionale una situazione in cui l’America assiste al tramonto del suo “hard power”, senza essere ancora in grado di utilizzare quello “soft “. Come dimostrato, per un verso, dall’abbandono precipitoso dell’Afghanistan e, dal’altro, il rifiuto di correre in soccorso di Haiti, missione considerata impossibile.
A complicare ulteriormente le cose, il retaggio del sanzionismo isterico di Trump e dell’”interventismo democratico”ereditato da Biden. Con la relativa divisione del mondo in Buoni e Cattivi ; e la retorica che l’accompagna. Una retorica usata a piene mani nei confronti della Cina; ma con esiti fallimentari se non addirittura controproducenti: che si tratti di economia o di uiguri, di Wuhan o di Hong Kong. Parole grosse per non dire eccessive. Risultati concreti, zero.
Ora, rimediare vuole dire fare ordine in casa propria. All’interno degli Stati uniti vincendo, sul terreno della democrazia, un confronto in cui non si danno mediazioni. E, in campo internazionale sostituendo, nel più breve tempo possibile, un sistema fondato sulle sistema delle sanzioni e del rifiuto preventivo del dialogo, un confronto nel merito per favorire, con ogni possibile incentivo, le necessarie intese.
A questo fine occorrerà muoversi su tre direttrici. Costruire rapporti con l’”altro”, liberi da pregiudiziali ideologiche, coinvolgendo, sui possibili accordi, il maggior numero possibile di contraenti. Far rientrare in gioco, magari con nuovi poteri e nuovi obbiettivi , le organizzazioni internazionali; e, infine, sostenere, anche dall’esterno, i processi di pace, con “adeguato sostegno economico”.
Sul primo fronte, quello dei rapporti con la Russia le cose procedono, più rapidamente del previsto.
Per quanto riguarda la “guerra cibernetica”, leggi hackeraggio , siamo già alla dissuasione reciproca. Prima tappa, l’ennesimo attacco a strutture americane, forse attribuibile ai russi, forse no. Un attacco cui però gli Usa hanno reagito, senza clamori, attaccando a loro volta il sistema russo di difesa, così da ridurlo a mal partito. All’insegna del “Tu mi puoi fare molto male e l’hai dimostrato; ma anch’io posso farti molto male e l’ho dimostrato”. E’ la constatazione della capacità di distruzione reciproca; e quindi dell’interesse reciproco a sospendere lo scontro. Tappa futura; l’impegno comune a combattere l’hackeraggio selvaggio, pratica ormai estremamente diffusa e a disposizione di molte organizzazioni, criminale e non e per le finalità più diverse.
Sembra poi avviata verso una soluzione anche la questione del North Stream. A suggello della ricostruzione, questa esaltata pubblicamente, dell’asse preferenziale Washington/Berlino. Anche qui, superata l’intossicazione propagandistica, si è capito che la minaccia contenuta nel gasdotto non riguardava affatto l’Europa ma l’Ucraina; leggi l’uso del gas come forma di pressione e di ricatto nei confronti di Kiev. Una preoccupazione che si pensa di fugare nell’immediato facendo capire a Mosca che non saranno tollerate azioni del genere. E, in prospettiva, chiudendo la partita, sulla base degli accordi di Minsk.
Tutto questo mentre Mosca offre a Washington le basi per sorvegliare da vicino, le mosse dei talebani. Riproponendo a Washington quella partnership anti jihadista che Bush rifiutò di prendere in considerazione vent’anni fa. Ma che potrebbe tornare utile adesso.
Curiosamente, nessuna di queste notizie è comparsa sulla stampa italiana. Per la viltà ambientale che caratterizza tutto il nostro discorso pubblico. Ma anche perché la nuova intesa tra Washington e Mosca si sta costruendo, pezzo dopo pezzo, tappa dopo tappa, a fari spenti e con il minimo di pubblicità. Notizie sì; ma senza troppi commenti. Fin qui un accorgimento necessario. Da ora in poi non più. In linea di fatto perché una svolta che è nell’interesse degli Stati uniti, della Russia e dell’Europa deve essere valorizzata per tutto quello che rappresenta. E, in linea di principio o, se preferite, di pura decenza politica, perche voler conciliare, da ora in poi, le esigenze della politica con quelle della propaganda significa perdere ogni credibilità sull’uno come sull’altro fronte.
Sugli altri fronti ( Israele/Palestina; Iran; Siria ma ora anche Cuba e Venezuela; per tacere delle crisi umanitarie in Medio oriente e altrove) le cose procedono ma lentamente. Nessuna rottura in vista; ma il raggiungimento di un accordo ostacolato da ragioni di principio ma non di sostanza. In un contesto in cui qualsiasi forzatura da parte degli Stati uniti si esporrebbe al fuoco di sbarramento dell’opposizione repubblicana.
Nel contempo, però, le sofferenze dei popoli aumentano a dismisura. E con esse le tensioni tra governati e governanti. Tensioni, anzi vere e proprie crisi. E senza possibile sbocco; sia esso la repressione violenta o un soddisfacente compromesso.
Tutto questo però non è casuale. E tanto meno dovuto a ragioni esclusivamente interne. Perché corrisponde esattamente al disegno politico delineato da Trump; le sanzioni come strumento per il “regime change”.
Un dramma in tre atti. Nel primo, le sanzioni ( quasi mai legate a specifici comportamenti del reo), volte a colpire non gli uomini del regime ma l’economia del paese. Nel secondo, l’incapacità del regime di farvi fronte ( anche perché portato naturalmente a difendere il suo sistema di potere più che a lenire le sofferenze del popolo). Nel terzo, la sollevazione popolare, accompagnata, peraltro, se di bisogno, da qualche aiutino esterno e, possibilmente, senza coinvolgere direttamente gli Stati Uniti.
Ora, i primi due atti si sono svolti esattamente come previsto. Mentre il terzo non è neppure cominciato; e per il semplice motivo che i suoi attori non si sono presentati sulla scena.
Ripartire da lì è possibile. Ma richiederà del tempo. E il fattore tempo, nel mondo in cui viviamo- chiuso, ingiusto, portatore di crisi- il tempo non è dalla parte di Biden per non dire dalla nostra.
E, allora, si dovrà ripartire dal principio. Con nuovi criteri. Con l’entrata in campo di personaggi “neutrali”- prime tra tutte le istituzioni internazionali e internazionaliste, l’Europa, e la Chiesa cattolica. E con l’obbiettivo primario dell’aiuto, consistente, incondizionato e, soprattutto, immediato alle popolazioni
Il resto, a partire dalla chiusura della partita delle sanzioni, verrà da sé. Non foss’altro perché parte di un disegno che può tranquillamente ignorare la possibilità di veti politici o ideologici che siano.
Di Alberto Benzoni