Jihadismo: l’arma letale al servizio della Turchia

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(Roma, 14 maggio 2021). Ogni grande potenza meritevole di tale titolo ha a propria disposizione degli eserciti paralleli e leali, rispondenti unicamente al comando dello stato profondo e attivabili al momento della necessità. Questi eserciti ombra possono essere delle compagini private, come il Gruppo Wagner o l’Academi (ex Blackwater), oppure delle organizzazioni guerrigliere e/o terroristiche che, dietro la scusante della battaglia ideologica, combattono per conto di una o più capitali.

Nel caso della Turchia, una delle potenze più aquiline della contemporaneità, le armate che difendono mura e fondamenta del sistema erdoganiano sono la Sadat, i Lupi Grigi ed una galassia variegata di sigle appartenenti agli universi islamista e jihadista.

I legami tra Turchia e jihadisti

Apertamente in combutta con la Fratellanza Musulmana, il cui status di organizzazione terroristica è dibattuto e sostenuto da meno di 10 Paesi, la Turchia del 2021 ha fatto della militarizzazione dell’islamismo e del jihadismo un proprio instrumentum regni. Un segreto di pulcinella, quello del legame tra Sublime Porta e teorici del jihad globale, denunciato apertamente dal Cremlino nel 2015, allo zenit della guerra in Siria, reso evidente dalla trasformazione dell’Anatolia in un luogo di transito ed in una base operativa del Daesh per buona parte degli anni 2010 e, più di recente, dall’approdo in Libia e Azerbaigian di mercenari e terroristi sul libropaga turco.

L’integrazione del terrorismo islamista nell’agenda estera turca è fonte di crescente preoccupazione nel mondo, ad esempio in Francia e in Israele, perché, spiega il noto think tank Begin-Sadat, i gruppi jihadisti “stanno diventando la forza sussidiaria permanente dei nuovi ottomani”. Non un matrimonio di convenienza, spiegano gli analisti israeliani, ma “un matrimonio celestiale”, dato che “la Turchia e i jihadisti hanno obiettivi comuni e sono legati dall’ideologia e dal settarismo, […] e condividono il gusto per l’avventurismo in terre lontane, specie se al servizio di ciò che vedono come una causa santa”.

La situazione in Siria

Nell’area di Idlib, divenuta a tutti gli effetti “una provincia turca”, dove la moneta di scambio non è più la lira siriana, ma quella turca, lo Stato Islamico continua ad operare e l’ordine è garantito da un ente di stampo islamista rispondente ad Ankara, l’Organizzazione per la liberazione del Levante (HTS, Hayʼat Taḥrīr al-Shām), legato a sua volta all’universo jihadista da alleanze con Al Qaeda, l’Emirato del Caucaso e Junud al-Makhdi.

HTS, lungi dall’essere un gruppuscolo irrilevante nel panorama parcellizzato siriano, è una forza di primo piano che controlla l’import-export a Idlib, guadagna un milione di dollari mensilmente dai traffici dei beni energetici, vanta un’armata di diecimila soldati ed “esercita pressione sui capi locali affinché ne accettino l’autorità, assicurandosi che la popolazione aderisca alla propria versione della shari’a”.

Oltre a HTS, nella “provincia turca di Idlib” è presente Hurras al-Din (HAD) – anch’essa affiliata ad Al Qaeda e alla Turchia, che può vantare un esercito di 2.000-2.500 combattenti – ed operano innumerevoli sigle, apertamente e puramente jihadiste, tra le quali la brigata cecena Khattab Al-Shishani, il centroasiatico Katiba al-Tawhid wal-Jihad e il Partito islamico del Turkestan.

L’Esercito Siriano Libero

La forza sussidiaria di matrice islamista più importante sulla quale può fare leva la Turchia è l’Esercito Siriano Libero, che riceve addestramento ed equipaggiamento dalla Turchia dal 2016 e i cui soldati sono stati spediti in Libia e nel Nagorno Karabakh, hanno minacciato la Grecia e vengono ritenuti responsabili di gravi crimini di guerra in Siria – dagli stupri all’eliminazione sistematica dei curdi.

L’Esercito Siriano Libero, parte della più ampia coalizione antigovernativa nota come Esercito Nazionale Siriano, ha mostrato e dimostrato una cieca lealtà alla Sublime Porta in innumerevoli occasioni, partecipando alle operazioni belliche ufficiali in terra siriana e portando avanti missioni coperte nel deserto libico e nei monti del Nagorno Karabakh. In larga parte siriani e aderenti al fondamentalismo sunnita, i combattenti dell’Esercito Siriano Libero “vedono come palatabile l’immagine di Recep Tayyip Erdoğan quale sedicente capo di una potenza sunnita e agiscono in supporto alle manovre geopolitiche regionali di Ankara”.

Il futuro del jihadismo nell’agenda turca

Il denaro e il tempo destinati all’addestramento e all’equipaggiamento delle sigle terroristiche si è rivelato un investimento, anziché una spesa, e questo ha condotto “i decisori politici ad Ankara a fare crescente affidamento sull’uso di proxy, provocando un cambiamento di psicologia e percezioni che ha rappresentato un allontanamento significativo dalla storica politica della Turchia di dipendenza da forze convenzionali”.

In sintesi, nel futuro della strategia militare della Turchia, alla luce dei successi conseguiti facendo leva sull’impiego di islam politico, islam radicale e jihadismo, forze sussidiarie e non convenzionali, come i gruppi terroristici e affini (ad esempio la Fratellanza Musulmana), sono destinate a divenire dei “componenti critici” nella difesa degli “interessi securitari regionali” della Sublime Porta.

Perché il terrorismo può essere un’arma altamente destabilizzante, e la storia lo ha dimostrato ampiamente, e la Turchia, una grande potenza in ascesa, non ha intenzione di lasciarsi sfuggire dalle mani l’incredibile opportunità rappresentata dal vuoto di potere nella galassia jihadista, che ieri le ha permesso di operare in Siria, Libia e Nagorno Karabakh, e che domani potrebbe consentirle di operare ovunque.

Emanuel Pietrobon. (Inside Over)