L’Iraq non sarà una priorità per Biden, ma un investimento

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(Roma 13 dicembre 2020). Il presidente statunitense neoeletto, Joe Biden, non ha ancora chiarito l’approccio che adotterà in Iraq. Secondo alcuni, il Paese mediorientale, sebbene sembri non essere in cima alle priorità della nuova amministrazione, potrà rappresentare un investimento volto non solo a garantire la sicurezza irachena interna, ma altresì a dimostrare “l’arte di governare” del futuro capo della Casa Bianca.

A riferirlo, il quotidiano al-Jazeera, sulla base di un articolo pubblicato dalla rivista statunitense The National Interest, scritto da una ricercatrice del The Washington Institute, Anna Borshchevskaya. Al momento, riferisce la ricercatrice, non è chiara quale sia la politica che Biden intende adottare in Iraq, ma il candidato democratico si è più volte detto intenzionato a porre fine alle situazioni di conflitto e a ritirare le truppe USA dal Medio Oriente, pur ammettendo la necessità per Washington di continuare a contrastare la minaccia terroristica in Siria e in Iraq. Ad ogni modo, evidenzia Borshchevskaya, sarebbe irrealistico pensare che Biden porrà l’Iraq tra le sue priorità, soprattutto se si considerano le problematiche che si troverà ad affrontare internamente e la precaria stabilità politica irachena. Al contrario, sono la Russia e la Cina ad attirare l’attenzione di Biden e del suo segretario di Stato, Antony Blinken, ma sarà proprio guardando all’Iraq che gli USA potrebbero essere in grado di frenare le ambizioni di Pechino e Mosca, oltre che quelle di Teheran.

Secondo alcuni analisti, spiega Borshchevskaya, con l’iniziativa economica della “Nuova via della Seta” la Cina mira a divenire una superpotenza a livello internazionale, e, per realizzare tale obiettivo, il Medio Oriente rappresenta un’arena strategica essenziale. Motivo per cui, Pechino sta cercando sempre più di svolgere un ruolo chiave in Iraq, non solo alla luce delle riserve petrolifere del Paese, ma anche per la sua posizione geografica strategica, che consentirebbe alla Cina di collegare le rotte commerciali eurasiatiche. A dimostrare una tale ambizione, viene menzionato il Memorandum di Intesa siglato, nel settembre 2019, dall’ex premier Adel Abdul Mahdi, dal valore di 10 miliardi di dollari, con cui l’Iraq si è impegnato a fornire 100.000 barili di petrolio al giorno alla Cina, in cambio di progetti infrastrutturali realizzati da società cinesi. Ad oggi, l’accordo sembra essere stato messo in standby dal primo ministro in carica, Mustafa al-Kadhimi, ma Pechino sembra non aver abbandonato i propri piani.

Un simile atteggiamento può essere attribuito, secondo Borshchevskaya, alla Russia, i cui interessi in Iraq spaziano dall’ambito energetico a quello bellico, fino al sostegno alle milizie filoiraniane attive nel Paese. Il tutto è, però, da collocarsi in un quadro più ampio che vede Mosca e Washington contendersi il potere a livello globale, mentre la Russia e la Cina sembrano essere più vicine di quanto sembri, come mostrato, a titolo esemplificativo, dal partenariato stretto da entrambe con l’Iran. Gli iracheni, da parte loro, continuano a guardare alla Russia come un Paese consapevole della minaccia posta dal terrorismo sunnita, e considerano Pechino e Mosca due alleati disposti a correre rischi in ambienti pericolosi e instabili, più dell’Occidente.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, spiega la ricercatrice, questi considerano la regione mediorientale una fonte di distrazione dalla più ampia competizione alla conquista di potere, mentre l’intera area e l’Iraq in particolare, viene vista dai suoi avversari come una fonte di ricchezza strategica. Tuttavia, consentire alla Russia e alla Cina di realizzare le proprie mire espansionistiche in Iraq potrebbe loro consentire di plasmare il Paese mediorientale in base alle proprie idee e interessi, che differiscono da quelli occidentali. Inoltre, a detta di Borshchevskaya, lasciare che Teheran, Mosca e Pechino dominino Baghdad potrebbe portare a una maggiore instabilità regionale.

Per tale motivo, l’obiettivo di Washington dovrebbe essere investire in Iraq e nel capitale umano a disposizione nel Paese, cosa che gli altri competitor non sembrano essere disposti a fare. Ciò significa investire nella sicurezza irachena, nella sua unità e democrazia, dando prova della cosiddetta “arte di governo”. In questo modo, conclude la ricercatrice, l’impegno statunitense potrebbe garantire la sicurezza di Washington stessa e preservare degli interessi geopolitici che vanno ben oltre l’Iraq.

Piera Laurenza. (Sicurezza Internazionale)