(Roma 22 novembre 2020). L’equilibrio su cui poggia la pace nell’Alto Karabakh è estremamente tenue e fragile. E quanto sta accadendo negli ultimi giorni ne è la dimostrazione. Nonostante il contenuto degli accordi di cessate il fuoco sia chiaro, esplicito e non passibile di revisioni, la Turchia sta esercitando pressioni costanti sulla Russia per ottenere un ruolo di maggior spessore nel processo di pacificazione.
Il monito del Cremlino
La pacatezza diplomatica che contraddistingue il Cremlino è stata messa temporaneamente da parte nella giornata del 20, quando il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato un ammonimento insolito, e ad un destinatario sconosciuto, durante un vertice dedicato al processo di pace nell’Alto Karabakh. Putin, alla presenza di Sergej Lavrov e degli altri partecipanti, ha dichiarato che “coloro che stanno cercando di farlo [rivedere l’implementazione degli accordi], devono essere consapevoli che l’unica alternativa è la guerra. E, che Dio lo impedisca, se succede, il sangue delle vittime sarà nelle mani di coloro che stanno cercando di far naufragare questi accordi”.
Nel corso dello stesso incontro di lavoro, Lavrov ha contestualizzato l’intervento del presidente e spiegato che “c’è, purtroppo, una tendenza, che mira a cercare di rallentare l’attuazione della dichiarazione dei presidenti di Russia, Azerbaigian e Armenia del 9 novembre, non permettendo che venga pienamente realizzata. Sebbene tutti siano costretti ad ammettere che stia venendo attuata con successo, stiamo osservando dei tentativi di cambiare la natura dell’operazione di mantenimento della pace; sono latenti, ma stanno avvenendo”. Lavrov, proseguendo, ha bollato come “inaccettabili” le interferenze e aggiunto che “tutte le parti del negoziato tenutosi in Armenia hanno convenuto che non ci sono alternative alla dichiarazione sul Karabakh adottata il 9 novembre”.
Il destinatario della minaccia si trova in Turchia
Non si possono comprendere le minacce provenienti dal Cremlino senza una previa ricostruzione di quanto accaduto nel Caucaso meridionale all’indomani del cessate il fuoco. La Turchia ha approfittato immediatamente della pace rinnovata per raccogliere i frutti della semina, annunciando che si sarebbe occupata della costruzione della linea ferroviaria Nakhchivan-Baku e iniziando una campagna di disinformazione per confondere l’opinione pubblica mondiale riguardo le operazioni di mantenimento della pace nell’Alto Karabakh.
Alla campagna disinformativa di Ankara hanno partecipato anche il presidente azero Ilham Aliyev e il ministro della Difesa turco Hulusi Akar, i quali hanno dichiarato che le forze armate turche avrebbero partecipato al mantenimento della pace nell’Alto Karabakh insieme alle truppe russe ivi presenti dalla sera del 9. La campagna di disinformazione ha rapidamente superato i confini dell’Anatolia e contribuito ad alimentare una confusione tale che Lavrov e Dmitry Peskov, il portavoce della presidenza, hanno dovuto provvedere a smentire personalmente le bufale.
La Turchia, con quella breve ma intensa campagna disinformativa, ha voluto inviare un messaggio al Cremlino: la partecipazione alla spartizione della torta non è equa, ha tradito le aspettative di Recep Tayyip Erdogan. Lo status quo attuale, infatti, impedisce ad Ankara di entrare nel Nagorno Karabakh e ne circoscrive il raggio d’azione a Baku che, comunque, lungi dall’essere divenuta un feudo esclusivamente turco, continua a subire l’influenza dell’astro russo.
Sullo sfondo della circolazione di bufale e/o di notizie semi-veritiere volutamente confusionarie da parte della stampa e dell’esecutivo turco, nel pomeriggio del 18 è avvenuto qualcosa di emblematico a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Un gruppo di dimostranti, sventolando bandiere con la mezzaluna e stella turca e ritratti di Erdogan e al grido dello slogan “Russia vattene, Turchia resta!”, ha inscenato una protesta per esprimere disappunto verso la presenza dei soldati russi nella regione contesa, di cui ne chiedevano la sostituzione con personale turco.
Perché la Turchia vuole rivedere gli accordi
L’accordo di cessate il fuoco rappresenta una vittoria in termini territoriali per l’Azerbaigian, che ha ri-esteso la propria sovranità su una serie di territori perduti nella guerra dei primi anni ’90, e in termini diplomatici per la Russia, che ha ottenuto simultaneamente il controllo de facto della repubblica non riconosciuta e la prossima uscita di scena dello scomodo Nikol Pashinyan – o, comunque, un suo riallineamento profondo e duraturo.
Il piano di pacificazione del Cremlino è stato elaborato in maniera tale da limitare al massimo le possibilità di manovra della Turchia nel Nagorno Karabakh: l’integrità dello strategico corridoio di Lachin è stata preservata e i punti-chiave della regione, come Stepanakert, verranno sorvegliati da un piccolo esercito composto da quasi duemila unità adibite a vigilare sul mantenimento della pace e sul rispetto degli accordi.
Ankara, dopo l’iniziale giubilo, ha compreso la natura limitante degli accordi, ragion per cui sta esercitando pressioni sul Cremlino per ottenerne la revisione parziale. L’obiettivo di Erdogan è una partecipazione attiva e diretta all’operazione di mantenimento di pace, ossia attraverso l’invio di propri soldati nella regione contesa, in luogo dell’attuale confinamento in un centro di monitoraggio, sito in territorio azero e gestito in maniera congiunta con Mosca.
Lo status quo, comunque, al di là della scontentezza di Erdogan, potrebbe rivelarsi utile in termini di ricadute elettorali sia per la Russia, che potrà agitare lo spettro del panturchismo alle prossime elezioni armene, che per la Turchia, che potrà rafforzare l’immagine dell’impero rinascente in casa e nel proprio estero vicino.
Emanuel Pietrobon. (Inside Over)