La corsa della Turchia per non perdere il Kosovo

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(Roma 07 novembre 2020). Chiunque sia interessato a giocare un ruolo pivotale all’interno del panorama europeo ha l’imperativo di costruire un avamposto nei Balcani. Chiunque sia interessato a condizionare in maniera rilevante le dinamiche che hanno luogo nei Balcani deve costruire un sodalizio con i Paesi più importanti della regione, come la Serbia, o ritagliarsi delle sfere di influenza nei teatri più sensibili, come il Kosovo o l’entità serba di Bosnia.

I Balcani non sono soltanto la “polveriera d’Europa” per antonomasia, essi sono anche un gigantesco punto d’incrocio tra Vecchio continente, mondo russo e Vicino Oriente; ed è più per il secondo che per il primo motivo che qui si stanno scontrando volti vecchi, come Turchia e Russia, e nuovi, come Israele, Cina, Stati Uniti, delle relazioni internazionali.

Il vertice di Antalya

Nella giornata del 6 novembre ha avuto luogo un vertice informale del Processo di cooperazione dell’Europa sudorientale (Seecp, South East European Cooperation Process) ad Antalya, in Turchia. Il protagonista indiscusso dell’evento è stato Mevlut Cavusoglu, il capo della diplomazia di Ankara, il quale ha approfittato dell’occasione per marciare sul malcontento di quei Paesi balcanici, come Albania e Macedonia del Nord, che vorrebbero entrare nell’Unione Europea ma che, fino ad oggi, hanno incontrato una moltitudine di ostacoli lungo il percorso.

Cavusoglu, inoltre, ha voluto rimarcare il ruolo di primo piano che ha giocato e sta giocando la Turchia nella lotta globale alla pandemia di Covid19, avendo risposto alle richieste di aiuto umanitario provenienti da 155 Paesi in tutto il mondo e avendo dedicato particolare attenzione ai Balcani. Nel complesso, l’incontro è stato utile allo sviluppo di tabelle di marcia per approfondire le relazioni bilaterali tra i membri del Seecp.

Il vero evento

Il vero evento, però, è avvenuto fuori dai confini del vertice, più precisamente durante la sera della vigilia. Cavusoglu ha avuto due incontri separati con l’omologo serbo, Nikola Selakovic, e il vice-primo ministro kosovaro, Besnik Tahiri. Con Selakovic si è discusso dei preparativi per la terza riunione del Consiglio di Cooperazione di Alto Livello, mentre con Tahiri si è parlato del processo per crimini di guerra a L’Aia che vede coinvolto l’ex presidente Hashim Thaci e di espandere la collaborazione per supportare il Kosovo nella risoluzione di problematiche nazionali e regionali.

Nel commentare le due bilaterali, Cavusoglu ha utilizzato due strategie comunicative radicalmente differenti: una più fredda e distaccata nei confronti di Belgrado, lasciando trasparire che si sia trattato semplicemente di un incontro di lavoro, e una più calda ed emozionale nei confronti di Pristina. Il ministro degli esteri turco, infatti, ha voluto rimarcare il legame fraterno che lega i due popoli e ha spiegato a Tahiri che comprende e condivide la preoccupazione per il fato di Thaci. Ultimo, ma non meno importante, Cavusoglu ha ricordato a Tahiri che “la Turchia continuerà a supportare il Kosovo”.

Gli sviluppi degli ultimi mesi

Negli ultimi due mesi la Turchia ha intensificato gli sforzi per consolidare la propria propria posizione egemonica in Kosovo, come palesato dal faccia a faccia tra Cavusoglu e Tahiri e dallo sviluppo di iniziative e progetti a Pristina, in particolar modo nella cultura e nell’istruzione. Il motivo dell’accresciuto dinamismo di Ankara è da ricercarsi negli accordi di normalizzazione parziale tra Serbia e Kosovo mediati dalla Casa Bianca e annunciati lo scorso 4 settembre.

Lungi dall’essere stato formulato con il semplice intento di sottrarre influenza nel processo di pace a Bruxelles e a Mosca, l’accordo ha una valenza geopolitica molto più estesa e sfaccettata. La seconda parte del documento, infatti, è stata dedicata interamente ai rapporti di Serbia e Kosovo con Israele, più nello specifico tratta del loro riconoscimento di Gerusalemme quale sua capitale unica e indivisibile, con annessa l’apertura di ambasciate in loco.

Il primo punto non sorprende perché i rapporti tra Serbia e Israele sono piuttosto datati e sono stati tradizionalmente connotati da un legame stretto e positivo, dalla collaborazione durante le guerre iugoslave all’attuale sodalizio negli armamenti; la vera novità è rappresentata dal Kosovo. Quest’ultimo, venendo riconosciuto da una grande potenza, avrà maggiori probabilità di invertire la tendenza della delegittimazione degli anni recenti causata dal boicottaggio serbo, mentre Benjamin Netanyahu aprirà un nuovo capitolo della guerra fredda in divenire con Recep Tayyip Erdogan, allargandola dal Medio Oriente ai Balcani.

L’apertura di un dialogo diplomatico ufficiale fra Pristina e Tel Aviv avviene sullo sfondo del terremoto in Albania del 26 novembre 2019, tragico evento che, proprio come la pandemia di Covid19, ha rapidamente assunto una dimensione geopolitica per via della battaglia degli aiuti umanitari nata successivamente. Fu proprio in quell’occasione che Israele manifestò con forza le proprie ambizioni nei Balcani meridionali, decidendo di entrare nella competizione umanitaria e inviando un chiaro segnale alla Turchia che, dopo aver surclassato l’Italia, da diverso tempo è il nuovo guardiano del Paese delle aquile.

L’importanza della cintura albanese

Per la Turchia i Balcani rappresentano e continueranno a rappresentare una priorità della politica estera − al di là del partito al potere − per ragioni di contiguità geografica, ciclicità storica, strategia e ideologia. La strategia riguarda in particolare, ma non solo, il controllo della cosiddetta “cintura albanese“, la fascia delle Aquile basata sul triangolo Tirana-Pristina-Skopje che circonda la Grecia e garantisce una proiezione di potere sul resto dei Balcani. L’ideologia, invece, è il neo-ottomanesimo, ovvero una dottrina mirante alla riconquista dell’egemonia su quei territori che un tempo furono sotto il dominio, diretto e/o indiretto, della Sublime Porta.

La lotta per l’egemonia sul Kosovo si inquadra in questo di contesto di mescolanza tra fattori geostrategici e ideologici, trattandosi del punto di collegamento tra Albania e Macedonia del Nord e della chiave di volta per tenere sotto scacco i Balcani occidentali. La cintura albanese riveste, quindi, un ruolo pivotale all’interno della penisola: la Turchia potrebbe, attraverso essa, possedere una leva di pressione nei confronti della Serbia (ossia della Russia), della Bulgaria e della Grecia, oltre che disporre di una base con cui, in cui e da cui, promuovere il proprio potere morbido nell’intera regione.

La Turchia è riuscita a penetrare nella cintura albanese per via di una serie di fortunati eventi avvenuti nel dopo-guerra fredda e nel dopo-guerre iugoslave, in particolare la ritirata dell’Italia dall’Albania, dinamiche demografiche in Macedonia del Nord e la graduale fuoriuscita dell’Arabia Saudita dal mondo musulmano balcanico. Gli Stati Uniti, inoltre, erano alla ricerca di un alleato potente al quale affidare la gestione informale del Kosovo – e la Turchia è stata l’unica potenza ad offrire garanzie in tal senso, disponendo tanto della volontà quanto dei mezzi per costruire un’influenza multidimensionale sul piccolo Stato: moschee, centri culturali, istruzione, cultura, intrattenimento (serie televisive), commercio.

Erdogan, però, una volta abbattuti definitivamente i due cardini dello stato profondo turco, ossia il kemalismo e il gulenismo, ha potuto palesare al mondo la reale natura antioccidentale del proprio piano di rinascita neo-imperiale, finendo nel mirino di Israele e delle petromonarchie wahhabite, e attraendo infine l’attenzione degli Stati Uniti. La decisione dell’amministrazione Trump di assegnare ad Israele un ruolo centrale negli accordi di normalizzazione tra Serbia e Kosovo si inserisce in questo ambito di competizione tra grandi potenze per il dominio dei Balcani e, soprattutto, di guerra fredda nascente l’Occidente e la Turchia.

Emanuel Pietrobon. (Inside Over)